venerdì 13 febbraio 2015
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La storia di un’identità sacrificata in nome della libertà, di una femminilità negata e ritrovata, di una prigionia accettata e poi respinta. L’opera prima di Laura Bispuri, Vergine giurata, unico film italiano in concorso a Berlino, applauditissimo dal pubblico e dalla stampa internazionale, torna sui temi che la regista aveva già esplorato nei suoi cortometraggi e a partire dal romanzo di Elvira Dones (edito da Feltrinelli nel 2007) esplora un mondo remoto, arcaico, misterioso, quello delle montagne albanesi, dove vige l’antico codice del Kanun. Proprio a queste leggi medioevali si appella la giovane Hana: per fuggire a un destino di moglie e serva in una società che non riconosce alle donne alcun diritto (in dote ricevono persino un proiettile che il futuro marito ha la possibilità di usare contro di loro), fa voto di verginità e diventa un uomo, Mark. Ma qualcosa del suo vero io brucia ancora sotto la cenere, ecco perché dopo dieci anni decide di lasciare la sua terra e venire in Italia, dove ritrova la cugina con la quale è cresciuta, e si riappropria di tutto ciò a cui aveva rinunciato. Mark riscopre Hana, comincia a lasciarle sempre più spazio fino a rinascere come creatura finalmente libera. Nei panni della protagonista c’è una straordinaria Alba Rohrwacher, capace di incarnare una «creatura a metà, che ha perso la propria identità, ma non ne ha trovata una nuova», come ci racconta lei stessa. «Mi sono chiesta spesso se fosse giusto per un’attrice italiana vestire i panni di una donna albanese appartenente a una realtà così lontana – aggiunge l’attrice – ma la fiducia riposta in me dalla regista mi ha convinto a intraprendere con un po’ di incoscienza questo spericolato cammino. Ho lavorato sui movimenti di Mark, sulla lingua e a un tratto o sentito che questo personaggio lo conoscevo. Ma solo quando siamo arrivati tra le montagne dell’Albania ho percepito davvero il senso di luoghi che ti imprigionano. E incontrare una vera vergine giurata, così misteriosa, abituata a vivere isolata, è stata una grande emozione». Ruvidamente poetico, essenziale, assai coraggioso nel confrontarsi con una cultura così distante, il film sconta forse un eccessivo rigore, lasciando poco spazio all’emozione soprattutto quando affronta il doloroso passaggio di identità. Ma ha il grande merito di introdurci in un universo poco esplorato dal cinema e di farlo con grande rispetto e senso di responsabilità verso personaggi destinati a rimanere enigmatici. «Mi interessa molto riflettere sulle gabbie invisibili che imprigionano le donne – commenta da parte sua la Bispuri – e Alba mi sembrava la persona giusta per intraprendere questo viaggio. Ho viaggiato a lungo in Albania, ho incontrato molte vergini giurate, sono entrata nelle case delle persone che però, come dice anche la scrittrice, ti aprono la porta in nome di un senso dell’ospitalità quasi sacro, ma non il cuore. Hana però non è l’unica donna prigioniera nel film. La giovane figlia di sua cugina in Italia pratica il nuoto sincronizzato, uno sport scelto non a caso, metafora della condizione di molte donne. La fatica di queste atlete resta invisibile sott’acqua, mentre quello che emerge in superficie è un volto truccatissimo e sorridente, che rimanda a un simbolo di perfezione al quale molte donne, che tutti noi consideriamo libere, pensano di dover aderire».
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