venerdì 22 luglio 2011
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Le attuali difficoltà dell’Unione monetaria europea incontrano nella storia un precedente interessante, per le analogie che presenta e gli insegnamenti che può offrire. È il caso dell’Unione monetaria latina, detta anche Lega latina, costituita nel dicembre 1865, tre anni dopo l’unificazione monetaria italiana avvenuta nel 1862, e dichiarata ufficialmente defunta nel 1925. Di quell’unione monetaria facevano parte quegli Stati che avevano conservato o deciso negli anni precedenti di adottare il sistema monetario napoleonico. Il ruolo di capogruppo era rivestito ovviamente dalla Francia, patria di quel sistema, si aggiungevano l’Italia erede del Regno di Sardegna, il Belgio e la Svizzera. Segno distintivo era il nome della moneta di riferimento, il franco, ideato dai tecnici della Rivoluzione all’inizio del secolo e mai presente, salvo un piccolo episodio, tra i nomi delle monete del passato. La parola franco evocava una terra, un popolo, proprio come il nostro Euro con, in più, il significato di "libero", "affrancato", del termine nell’originaria lingua francese. L’Italia si volle discostare dagli altri Paesi e, pur adottando il franco, mantenne l’antico nome di lira, l’antica unità di peso (libbra) divenuta universale moneta di conto, cui aggiunse la scontata specificazione di "nuova". La stessa scelta fece poi la Grecia che, due anni dopo adottò il franco, chiamandolo però dracma. Poco importava se il nome di alcune valute era diverso: identico era il principio su cui tutto il sistema si basava, identiche erano le monete in circolazione per peso e per titolo. Questa specificazione ci dà la cifra della differenza rispetto alla nostra unione monetaria attuale. Oggi si tratta di una unione di monete per lo più cartacee, non aventi in sé il valore dichiarato. Allora, parte preponderante delle monete in circolazione era "a valore intrinseco": il valore commerciale del metallo, ovviamente prezioso, di cui erano fatte, corrispondeva cioè al valore "facciale" della moneta. Questo principio non valeva naturalmente per la moneta cartacea e per quella "divisionale", ossia gli spiccioli, ma le banconote e le divisionali dovevano essere obbligatoriamente convertibili in oro o in argento da chi le aveva emesse (banche o zecche nazionali) a richiesta del portatore. Si capisce allora perché sembrò in quel momento relativamente semplice costituire un’Unione monetaria senza il presupposto di alcuna unione politica tra Stati membri: la base di partenza era solida, si fondava su oro e argento, a cui si aggiungeva un rapporto fisso tra oro e argento (1:15,50). Ai fondatori dell’unione sarebbero così bastate poche regole: stabilire quali pezzi monetari d’argento e d’oro coniare, quale titolo (percentuale di metallo prezioso rispetto al metallo di conio) e quale peso adottare. Ma se tutto era così ovvio, perché l’esperienza fallì? Rispondere a questa domanda permette di trarre qualche insegnamento per l’oggi. Federico Marconcini, economista della Cattolica e autore nel 1929 di un volume sull’Unione ancora molto attuale, lo spiegò descrivendo il senso di sollievo che, solo pochi anni prima, aveva accolto lo scioglimento formale di una Unione monetaria latina ormai al capolinea: finalmente i piccoli Stati nazionali di cui si era popolata l’Europa postbellica si sentivano emancipati da restrizioni monetarie che sembravano del tutto estranee. La miopia di quegli anni non permise però di vedere che un’altra moneta sovranazionale (questa volta veramente eterodiretta), il dollaro statunitense, sarebbe subentrata all’unione volontaria tra stati compartecipi. E che la Lilliput monetaria europea si auto-condannò a svolgere un ruolo subalterno per lungo tempo.Per una certa politica, probabilmente, era meglio evocare libertà, autonomia, scelte spontanee, ed ottenere il consenso (di corto respiro) che accompagna l’euforia drogata da manipolazioni monetarie. Fu questo il virus che si insediò, inaspettato ospite, tra le pieghe dell’Unione, complici il crescente divario tra il valore commerciale dell’oro rispetto a quello dell’argento, i problemi di bilancio di Stati oberati da un insostenibile debito pubblico, le crisi economico-finanziarie e le tensioni internazionali sfociate poi nella Grande guerra. Ecco allora Italia, Grecia e Belgio adottare a più riprese il corso forzoso: si stampava cartamoneta non convertibile in metallo per i bisogni del Tesoro, alzando la base monetaria propria e, di conseguenza, di tutta l’Unione. Si fruiva di un provvisorio dumping valutario a spese anche degli altri, per poi ritrovarsi intrappolati al punto di partenza. Nel momento di maggior deprezzamento dell’argento rispetto all’oro si continuavano a coniare in modo irresponsabile più scudi del dovuto per poter fruire di vantaggio del cambio in carta o in oro. Oppure, come fece la Svizzera, si evitava di coniare moneta argentea propria per attrarre nei propri confini l’argento altrui. I continui aggiustamenti cui si fece ricorso per arginare queste deviazioni finirono per "burocratizzare" l’Unione, fissando regole sempre più stringenti e regolarmente aggirate dai singoli governi. In quel momento sarebbe invece stata necessaria una maggior coesione politica, ma nell’ultimo scorcio del secolo tutto divenne più difficile. La guerra e il dopoguerra diedero il colpo di grazia a un’istituzione che continuava a vivere solo sulla carta. Quando fu ufficialmente dichiarata morta, nel dicembre 1925, ben pochi se ne accorsero. E l’Unione monetaria latina fu condannata all’oblio.
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