giovedì 10 settembre 2009
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«Invece di vendere informazione ai propri lettori, i giornali italiani vendono i propri lettori alle forze politiche che li sostengono». Lo sguardo del semiologo Ugo Volli sul panorama dell’informazione nel nostro Paese è desolato: «In che stato versa? Versa in stato comatoso, veramente pessimo. Tra i tanti problemi che presenta, il principale è quello del ruolo che la stampa si attribuisce: non fornire notizie a cittadini adulti in grado di decidere, ma essere un attore politico che, come tale, usa i contenuti da un lato per fare propaganda, e dall’altro per far pesare la propria forza all’interno del sistema politico. Come se non bastasse, il meccanismo viene coltivato attraverso la mobilitazione della base sociale costituita dai lettori, dai collaboratori e da tutte le persone vicine ai vari organi di stampa, attraverso l’invito a sottoscrivere pubblici appelli».Quello «per la libertà di stampa» lanciato da «La Repubblica» dopo essere stata querelata da Berlusconi non è forse comprensibile?«Sono rimasto colpito assai negativamente dalla chiamata rivolta da Repubblica a tutti gli amici della testata, indicando con grande rilievo nomi e cognomi, affinché protestino contro la citazione in giudizio. Come se libertà di stampa e l’intervento dei tribunali – il cui ruolo è proprio la tutela della libertà, oltre che la definizione dei suoi confini laddove inizia la libertà altrui – fossero in contrasto. Come se la libertà potesse andare al di là della verità e del diritto delle persone a difendere la propria sfera privata, al di là di qualunque possibile valutazione da parte della legge».E tutto questo, a fini esclusivamente politici?«Vedo giornali che si sono trasformati in strumento di organizzazione politica della società italiana, come se fossero tutti quotidiani di partito. La personalizzazione degli attacchi è l’ovvia conseguenza di questo profondo mutamento: la logica non è quella dell’informazione, ma quella dell’aggressione. Va sottolineato che né a Berlusconi né a Boffo, pur nella grande differenza delle due situazioni, è stato contestato alcun elemento giuridico che potesse rappresentare un impedimento al loro ruolo: a essere messa in discussione è stata la loro onorabilità individuale, e per farlo si sono usati argomenti relativi alla sfera estremamente personale della vita intima. Con due possibili significati: da un lato, è intimidazione o ricatto; dall’altro, è propaganda politica radicata nella contumelia».Sembra anche che si perso ogni confine di genere: i quotidiani d’informazione si confondono con la stampa scandalistica...«Senza dubbio non è eccessivo parlare di imbarbarimento, perché c’è stato un effettivo salto qualitativo della nostra stampa. Ci sono sempre stati, anche in passato, "scandali" veri o presunti: però la loro eco giungeva solo di riflesso ai grandi organi informazione. Oggi, invece, ne sono diventati il fulcro e il giornalista di successo non è quello capace di scoprire delle verità di interesse generale, ma quello in grado di insinuare "verosimiglianze" più o meno legali, senza fonti che le sostengano. Non è un caso che in questi tempi ci sia tanta confusione di ruoli tra politici, giornalisti e personaggi dello spettacolo, comici soprattutto. Uno strano amalgama di persone che, invocando l’intoccabilità della libertà di stampa o del diritto di satira, pensano di non dovere fornire le prove di quel che dicono e, al tempo stesso, di essere autorizzati a frugare ogni aspetto della vita privata».Vede, insomma, una tendenza generalizzata?«La deriva, a mio giudizio, investe in questo momento quasi tutto lo schieramento politico-mediatico: da La Repubblica a Il Giornale, sono tutti d’accordo nel sostituire il giornalismo con un atteggiamento di superiorità, da tutori della pubblica moralità. Il che per me non è solo mancanza di etica, ma anche di capacità tecnica e di deontologia professionale».E i lettori?«Smettono di acquistare il "prodotto" e si rivolgono altrove, magari all’informazione diffusa su internet. Infatti negli ultimi anni i quotidiani hanno registrato un notevole calo di tiratura complessiva, ma questo non sembra preoccupare più di tanto gli editori: tanto, i loro giornali servono non a vendere, ma a ottenere vantaggi di altro tipo, trasversali, facendo leva proprio sul potere di cui dispongono».Ma esistono davvero altri media, diversi dalla stampa quotidiana, non piegati a questa logica?«No: il problema del circuito mediatico nel suo complesso è che gran parte delle notizie è costituita da quanto detto o successo su un altro media. C’è un rimbalzo continuo, con i quotidiani che commentano quello che hanno visto in televisione e viceversa, in un’ininterrotta amplificazione: come nelle vecchie botteghe dei barbieri, due specchi uno di fronte all’altro moltiplicano le stesse figure all’infinito».Anche internet?«Certo, anzi: dalla Rete viene un elemento ulteriore, decisivo nell’evoluzione subita negli ultimi anni dal sistema dell’informazione nel suo complesso. La logica fondamentale del cosiddetto web 2.0, quello nel quale autori e fruitori si sovrappongono, consiste in un enorme abbassamento delle barriere di accesso, fino a eliminare ogni distinzione tra competenza e incompetenza. In qualche modo infastidita dal sapere, la gente pensa che sia giusto, democratico e opportuno dire la propria su qualunque cosa: s’impone la chiacchiera a ruota libera dove le contraddizioni non importano, le falsità non hanno peso, gli errori non si scontano».
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