martedì 18 maggio 2021
Tramontato il modello di Sartre, la figura dello scrittore impegnato sembra riproporsi attraverso un processo di semplificazione nel quale il contenuto ha il meglio sulla forma
Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre in piazza Tiananmen a Pechino in occasione del 6° anniversario della fondazione della Cina comunista il 1° ottobre 1955

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre in piazza Tiananmen a Pechino in occasione del 6° anniversario della fondazione della Cina comunista il 1° ottobre 1955 - WikiCommons

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Fa abbastanza impressione imbattersi in un giudizio tanto severo all’inizio di un libro che, fin dal titolo, si pone sotto il segno dell’ammirazione, se non addirittura dell’entusiasmo. Tuttavia è proprio questo che capita con Scrivere per dire sì al mondo (Mondadori, pagine 304, euro 20,00), il saggio con forti implicazioni autobiografiche nel quale uno dei più consapevoli narratori italiani di oggi, Leonardo Colombati, passa in rassegna «quello che i grandi scrittori ci insegnano sull’arte e sulla vita». Trovandosi alle prese con una citazione di Jean-Paul Sartre sul valore dell’impegno in letteratura («lo scrittore ha scelto di svelare il mondo e in particolare l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità»), Colombati se ne esce con un inappellabile: «È una delle affermazioni più cretine che mi sia capitato di leggere».

Non è un episodio isolato. Un’analoga insofferenza si ritrova nel pamphlet che Luigi Mascheroni, bibliofilo che agisce sotto le spoglie di acuminato cronista culturale, ha dedicato ai Libri (Oligo, pagine 36, euro 12). Rivelatore è questa volta il sottotitolo, secondo il quale i libri stessi «non danno la felicità (tanto meno a chi legge)». Mascheroni se la prende principalmente con la retorica della lettura come risorsa pedagogica e presidio farmacologico, domandandosi come mai, se davvero l’attività è così nobile, coloro che la praticano per professione non siano esenti da meschinità. Sotto sotto, anche qui corre il fastidio nei confronti di un complesso di superiorità che ormai trova pochissima rispondenza nella qualità delle opere attraverso le quali il famigerato “messaggio” dovrebbe diffondersi.

Chi affronta la questione di petto è un altro scrittore, Walter Siti, che fin dalla copertina del suo nuovo saggio dichiara di scagliarsi Contro l’impegno (Rizzoli, pagine 272, euro 14,00) e aggiungendo subito dopo, con ironica malizia, che le sue vogliono essere «riflessioni sul Bene in letteratura», dove già l’uso della maiuscola invita a stare in guardia. Il bersaglio è solo in parte differente da quello individuato da Colombati. Questa volta il povero Sartre sembra cavarsela meglio, anche se la fonte dell’affermazione analizzata da Siti è la stessa del frammento contestato in Scrivere per dire sì al mondo. Si tratta di Che cos’è la letteratura?, corposo manifesto della poetica e della prassi sartriana nel quale «la letteratura impegnata» viene presentata come «il riflettere soggettivo di una società in rivoluzione permanente». Per Sartre, annota Siti, l’engagement fa appello alla libertà del soggetto, mentre nel contesto contemporaneo la parola ha perfino mutato significato e l’engagement rate altro non è se non l’indice di coinvolgimento dell’utente espresso da una pagina web. Secondo Siti «la versione prevalente dell’engagement punta su un contenutismo tanto orientato sulla cronaca quanto angusto, con temi che non è difficile elencare». E l’elenco l’autore lo fa davvero, ampliandolo poi nella disamina di alcuni casi esemplari che comprendono i nomi di Roberto Saviano, Michela Murgia, Giuseppe Cattozzella e altri ancora.

Siti non rinnega il mandato morale della letteratura. Anzi, si potrebbe sostenere che lui stesso l’ha perseguito e lo persegue, sia pure nella modalità paradossale e non di rado disturbante che caratterizza la sua attività di romanziere. Tra i massimi studiosi di Pier Paolo Pasolini, Siti non accetta però che lo stratagemma di semplificazione a oltranza in conseguenza del quale la letteratura viene privata del suo statuto di «ambiguità»: una nozione, quest’ultima, che in Contro l’impegno viene preferita a quella di “complessità”. Non si sostiene che la letteratura non possa o, peggio, non debba rappresentare il bene (o il Bene, per stare al suo gioco), ma perché questo accada occorre che lo scrittore non trascuri l’istanza di una sincerità talvolta spietata. Il modello, in questo senso, è l’Emmanuel Carrère di Vite che non sono la mia, un racconto dal vero nel quale la scoperta dell’altruismo non elimina automaticamente l’insidia dell’egoismo.

Anche da questo punto di vista, Contro l’impegno si presta a una lettura incrociata con Scrivere per dire sì al mondo, che è una sorta di storia della letteratura occidentale sotto forma di girandola. Colombati si mantiene fedele al suo spirito di erudito fantasioso, capace di passare in poche pagine da Shakespeare a Stephen King e da Kafka a Saul Bellow seguendo il filo della sapienza cabalistica.

Il libro nasce dalla scuola di scrittura Molly Bloom, che Colombati ha fondato e dirige, ma questa dimensione quasi manualistica (i temi sono suddivisi in modo da rendere subito intelligibili i princìpi fondamentali del processo narrativo e stilistico) non impedisce che, di capitolo in capitolo, si sviluppi un’originale teoria della letteratura. Che non sarà impegnata, ma impegnativa sì, anche nel raffronto con l’esperienza spirituale, verso la quale Colombati ha sempre mostrato forte attenzione. «La narrativa – sostiene – non ci chiede di credere alle cose (in senso filosofico), bensì di immaginarle (in senso artistico)». E nel congedo, con quella che suona come una professione di fede: «Per me, l’arte è il paradiso». Un paradiso da conquistare con tenacia, se è vero che, annota lo stesso Colombati, «alla base del principio creativo ci sono il frantumarsi dell’uno nella molteplicità, la violenza e il caos». Una vasta ambiguità cosmica al cospetto della quale l’engagement vecchio stile non è troppo, ma troppo poco. Del resto, anche l’incontentabile Mascheroni è persuaso che «la lettura trasforma il buon lettore, non tutti i lettori». Insomma, per leggere occorre far fatica. O, se si preferisce, bisogna impegnarsi un po’ di più.

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