sabato 6 febbraio 2021
Da un bigliettino di scuse di un bambino nasce un libro con nove “lezioni” del filosofo dell'Università di Trieste: «Abbiamo bisogno di piccoli gesti per risvegliare il nostro desiderio di bene»
Giovanni Grandi, filosofo morale dell’Università di Trieste

Giovanni Grandi, filosofo morale dell’Università di Trieste

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«Buongiorno, mi scusi per la pianta. L’ho colpita accidentalmente con un pallone da calcio. Ecco 5 euro per il danno». Tutto comincia con un pezzettino di carta, un messaggio e una firma. «Un vicino ci mostra (felice) questo biglietto, che ha trovato accanto a una sua pianta acciaccata. Lo ha lasciato un amico di nostro figlio (undici anni). Il mio prossimo corso di Etica pubblica in università non potrà che partire da qui». Giovanni Grandi, filosofo morale dell’Università di Trieste, non poteva mai immaginare che il suo tweet venisse in poche ore condiviso in maniera “virale”, raccogliendo più di 15mila like. E che poi arrivassero articoli, servizi tv, diventando un caso mediatico. «Perché un fatto semplice, apparentemente insignificante, scatenava così tanto interesse?». Il filosofo non poteva non pensare, cercare di capire. Nascono così le “Nove lezioni di etica pubblica”, raccolte in Scusi per la pianta (Utet, pagine 128, euro 12,00). Un breviario per leggere i tempi che viviamo e porci qualche domanda sul nostro andare, sulle piccole azioni che possono cambiare davvero la nostra società. Quella reale e quella “virtuale” del web, a cui Grandi dedica particolare attenzione con l’associazione Parole O_Stili, mentre sta lanciando un corso universitario sull’“Etica pubblica e la comunicazione” che partirà ad aprile.

Professore, siamo messi così male se un bigliettino di scuse di un bambino genera tanto clamore?

Forse sì, ma potremmo anche rovesciare la prospettiva e dire che siamo messi bene, se episodi come questo ci colpiscono. Vuol dire che c’è ancora attenzione morale, c’è un terreno ricettivo su cui seminare.

Ma perché ci colpisce?

Perché il gesto, semplice in sé, risveglia il desiderio di un mondo migliore, soprattutto in noi adulti. Sentiamo la nostalgia di quella prontezza di quando eravamo piccoli, di quella disponibilità verso gli altri che forse abbiamo perso nel tempo perché la vita ci ha feriti, rendendoci più cinici. Allora una cosa così piccola giunge inaspettata e può sorprenderci.

Cosa succede poi? Ecco, la domanda è: riusciamo ad andare al di là dell’episodio? Riusciamo a passare dalla reazione emotiva all’elaborazione riflessiva? Se pensiamo alla pandemia e alla nostra reazione iniziale, ci siamo detti: «Niente sarà come prima». Di fronte alla paura collettiva, sono scattati meccanismi di solidarietà, i balconi, #andràtuttobene, l’attenzione al vicino. Poi la situazione si è lentamente normalizzata fino al riemergere dei modi di sentire e di pensare più soliti. È riemersa la rabbia, il discutere irritato sulle priorità, l’idea di essere in concorrenza gli uni contro gli altri. Nella fatica del prolungarsi dell’eccezionalità, la solidarietà della prima ora si scioglie. Ora siamo nel tempo dello scioglimento, ed è un tempo molto delicato.

La magia svanisce…

Sì, e tutti tendiamo a ritornare alle abitudini solite. Per questo non possiamo sciupare la coda della “virilità”, il tempo in cui l’impressione iniziale non è del tutto cancellata e i modi soliti, di pensare o di fare, non sono ancora del tutto ripristinati. Questo, pensando alla macroparabola della pandemia, è il tempo che stiamo vivendo.

Se allarghiamo la visuale, dal nostro “condominio” allo Stato, lo scandalo è sempre in agguato. Si può distinguere fra etica pubblica ed etica privata?

Oggi il confine tra vita privata e vita pubblica sta scomparendo. Specie sui social media tutti abbiamo un “pubblico” e lo invitiamo costantemente a notare la nostra vita privata: non possiamo poi meravigliarci se chi deve intrattenere con noi relazioni di lavoro cerchi di farsi un’idea di chi siamo osservandoci a tutto tondo. Ma proprio questo genere di indagini ci rivela l’intuizione antropologica: vizi e virtù ci accompagnano dal privato al pubblico senza soluzione di continuità. Non può esserci una “doppia” morale.

Ma sui social si può mostrare un altro volto di sé, una maschera… Il virtuale e il reale sono due aspetti speculari della nostra esistenza. Questi due mondi prima o poi si raccordano. E se i due profili non corrispondono, questo finirà per emergere. Per questo vanno usati con cura i social, senza cedere alla tentazione di sovra-rappresentarsi.

Nel suo libro accosta etica pubblica e spiritualità, in che modo sono legate?

Gli antichi hanno riservato molta attenzione al rapporto con il denaro e con il potere. Pelagio faceva osservare che il desiderio di queste due cose non conosce punto di saturazione. Significa che si può finire per esserne catturati in modo totalizzante. Quindi sapendo di doversi occupare di risorse pubbliche, e quindi di dover essere costantemente esposti al fascino del potere e della ricchezza, occorre prestare particolare attenzione alle dinamiche della lotta interiore. Anche Max Weber, nel suo celebre discorso sulla Politica come professione in fondo giunge alla stessa conclusione: senza la cura costante della vita spirituale difficilmente si riesce ad assolvere ai compiti pubblici con responsabilità o, come scrive la nostra Costituzione, «con disciplina e onore».

C’è anche un’etica nella comunicazione. Il web sembra un far west, fra fake news, hater, hacker… Come si è arrivati a questa degenerazione?

La qualità delle piazze digitali dipende dai modi delle persone che le frequentano, proprio come nella dimensione offline: così ci sono luoghi splendidi e altri degradati. Però è vero che online percepiamo meno la dimensione pubblica e aperta di questi contesti: spesso ci si esprime con rabbia e toni accesi come se ci si stesse sfogando a tu per tu con un confidente. E invece si è al centro della piazza, e ogni parola - specie poi le più violente e sprezzanti - può scatenare o alimentare dinamiche di aggressività e di offesa a crescita esponenziale. Con questo voglio dire che siamo molto preoccupati degli “inquinatori” di professione, ma che invece dovremmo anzitutto attrezzarci per non essere inquinatori ingenui o involontari.

Con l’associazione Parole O_Stili avete stilato un manifesto per migliorare la comunicazione in rete.

Ci siamo chiesti precisamente come sostenere la maturazione di un modo consapevole e eticamente avvertito di abitare le piazze digitali. Il manifesto non dà delle prescrizioni, propone dei principi, punti su cui si può sostare e interrogarsi: “il virtuale è reale”, “le parole sono un ponte”, “gli insulti non sono argomenti”, “le parole ci rappresentano”... e così via fino all’ultimo, “anche il silenzio comunica”. Sono spunti da cui avviare una riflessione, dei laboratori, e certo anche delle attività formative, come è stato fatto da Parole O_Stili con le Schede per l’Educazione Civica destinate alle scuole.

Ora lancia anche un corso universitario. Qual è l’obiettivo?

Mettere in collegamento tre dimensioni: l’etica nelle istituzioni; il mondo della comunicazione inteso non solo come risorsa di strumenti ma anche come mondo di relazioni; la gestione dei conflitti. Offriremo elementi per comprendere il panorama sociologico e antropologico, per scegliere parole di qualità, ma anche per farsi carico delle situazioni compromesse proprio a causa di fraintendimenti ed eccessi nell’interagire gli uni con gli altri.

Il biglietto del bambino diventa così una lezione. Etici si nasce, ma poi si diventa?

Si nasce etici perché la sensibilità al bene ci appartiene. Ma questo intuito per il bene va poi tradotto in gesti possibili, nonostante le ferite, le delusioni, le sconfitte. E va talvolta rinnovato, lasciandoci sorprendere anche da piccoli episodi. La responsabilità va coltivata. Come una piccola pianta, di cui provare a prendersi cura.

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