domenica 7 marzo 2010
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Quando al telefono ascolto la voce di suor Julia per la prima volta, l’unica cosa che si lascia facilmente percepire, dato lo spiccatissimo accento anglosassone, è la sua origine inglese. Per il resto, l’unica notizia avuta al suo riguardo non fa che circondare quest’eremita di un alone di mistero. So di lei che vive dentro a un cimitero. Il cimitero nel quale vive suor Julia però è quello monumentale «degli Inglesi», in pieno centro a Firenze; un ovale situato nel bel mezzo di Piazzale Donatello, circondato ad ogni ora del giorno dal rumore intenso del traffico cittadino. In un luogo simile, senza dubbio, non si è lontani dal mondo né, con molta probabilità, si intende fuggirlo; lo intuisco quando lei, nel suo stentato italiano, mi informa che c’è un modo molto pratico di avere qualche notizia anche a distanza: visitare il suo sito web. Vengo così a sapere, prima di conoscerla di persona, che Julia Bolton Holloway, studiosa, scrittrice, ex monaca anglicana, è adesso custode del monumentale «Cimitero degli Inglesi»; che in questo spazio è responsabile di una biblioteca intitolata a Fioretta Mazzei, e che da essa promuove una gran quantità di iniziative culturali e spirituali. Che eremita è questa donna che vive nel centro di Firenze circondata dal suo caos? E ancora: che eremita è chi si rende accessibile, conoscibile attraverso il mezzo di comunicazione più veloce dei nostri tempi? Il giorno della mia visita, la donna che mi viene incontro ha un aspetto molto normale e di immediato richiamo religioso; indossa una corta veste monastica di colore azzurro chiaro un po’ sbiadita che – come poi dirà – confeziona da sola con quello che capita. In testa ha un velo bianco. È, questa di indossare una veste, una necessità che ha per lei il valore di una piccola riaffermazione; nel monachesimo americano, che conosce bene, si sta andando sempre più verso l’azzeramento di ogni segno distintivo, ma lei che nella sua vita, spesso in giro per il mondo, ne ha conosciuto i vantaggi, intende reagire così: «È stato bello quando sono stata in San Pietroburgo, all’Unesco e i musulmani sono venuti da me per dire: "Anche io sono religioso" e gli ortodossi sono venuti a dirmi: "Noi vogliamo l’unione con voi"; e si era in un contesto internazionale. Io trovo che è più facile vestirsi così per essere testimoni». Julia Bolton Holloway nasce a Londra nel 1937. Il padre, scrittore e uomo di spicco nel mondo della cultura anglosassone, desidera per lei la migliore istruzione possibile, per questo ella sarà tra le allieve di un collegio anglicano del Sussex.La sua esperienza scolastica, molto promettente e attratta in particolare dallo studio del Medioevo, dopo le scuole superiori prosegue speditamente negli Stati Uniti dove, nel giro di pochi anni, si trova avviata all’insegnamento; dapprima ai francescani dell’Illinois, poi a Princeton: «Noi siamo state la prima generazione di donne a insegnare all’Università». All’inizio degli anni Novanta Julia, nell’età in cui le scelte importanti si credono ormai fatte una volta per tutte, dopo l’esperienza di un matrimonio fallito e mentre dirige l’Istituto di Studi Medievali all’Università del Colorado, anticipa l’uscita dall’insegnamento a dieci anni dalla pensione: «Ho rinunciato a tutto per entrare nel mio convento». È così che Julia, cinquantatreenne, entra nel convento della sua vecchia scuola per diventare monaca anglicana. Però, passati 4 anni, accadono alcune cose che la disorientano: «Il vescovo ha voluto la proprietà del monastero ed è stata la fine della nostra comunità». Ma c’era anche di più: «Io sono stata lì 4 anni con il velo ma non ho potuto fare i voti perché loro non hanno accettato. Allora ho detto: "Vado via"». Un’uscita che ha tutti i caratteri di una vera e propria fuga di fronte a un male che, una volta intravisto, è troppo doloroso per essere accettato: «Ero disperata perché a quel punto il male che vedevo era così grave che non ne ho potuto più. Mi ha fatto impressione perché quella era stata la mia scuola, il luogo dove avevo imparato la religione e percepire che c’era del male dentro quell’ideale per me era troppo...». Julia sceglie di andare molto lontano: «Sono fuggita qui in Italia; ho scelto di essere in un luogo bello». È il 1996 ed è Montebeni, sulle colline di Fiesole, il «luogo bello» nel quale, con un grande senso di desolazione, approda in attesa di risalire verso la gioia. «La cosa buona è stata che ho dovuto "fare l’edizione" della Giuliana». La donna cui suor Julia spesso, nell’intercalare del discorso, si riferisce con tanta confidenza, chiamandola per nome come si fa con l’amica del cuore o con la vicina di casa, è Giuliana di Norwich, la celebre teologa e mistica inglese vissuta a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Julia l’ha già studiata e conosciuta nel periodo dell’insegnamento e, appena giunta in Italia, ha la possibilità di curare l’edizione della sua opera più celebre. Nella sua lunga esperienza di medievista, tanti sono gli studi e i saggi pubblicati che portano la firma di Julia Bolton, ma questa volta la mistica lascia in lei un’impronta indelebile come nessun’altra: «Ogni volta che sono tornata alle pagine di questo lavoro, di questi manoscritti, la speranza è tornata; penso che questo viene da Dio; non c’era nessun’altra ragione altrimenti per continuare».Altre cose buone accadono, ora che «la Giuliana» ha aperto la strada e, tra queste, una importantissima: «Nel giorno dell’Assunzione sono entrata in una chiesa di campagna in preghiera e ho presentato a Dio i miei voti di povertà, castità, obbedienza, nessun altro presente, e subito è tornata la gioia della mia vocazione». La gioia di Julia, una volta trovata la fonte, avrebbe potuto solo crescere, come quella volta che le capitò di conoscere suor Maria Chiara della «Comunità dei Figli di Dio»; era bellissimo che fosse ancora una donna a indicarle come proseguire il cammino. Julia grazie a lei conoscerà don Divo Barsotti e sarà proprio il sacerdote fiorentino che, a seguito di una lettera scritta dal cardinale Piovanelli, con il sacramento della Confermazione, la accoglierà nella Chiesa cattolica. Poi la Chiesa evangelica svizzera le offrì il Cimitero degli Inglesi, nel centro di Firenze. Suor Julia si rivolge allora al proprio direttore spirituale. Il monaco, un benedettino, eremita lui stesso dentro a un cimitero, non fatica a consigliarla: «Accetta; anche Giuliana ha vissuto in un cimitero». La prima cosa da realizzare fu proprio una biblioteca. Perché intitolarla a Fioretta Mazzei? «Perché negli ultimi anni della sua vita l’ho conosciuta per caso e lei ha sempre parlato del bisogno di continuare la cultura fiorentina in questo contesto religioso». Dopo Giuliana e suor Maria Chiara, la Mazzei è un’altra grande figura femminile sulla sua strada, anch’essa capace di aiutarla a capire che cosa sarebbe stato importante esprimere in questa sua nuova vita. Ora suor Julia lancia ininterrottamente in giro per il mondo i tesori grazie ad Internet: «Ho messo in rete tutti gli scritti di Brigida di Svezia, i testi in latino, le vite dei santi, molte delle cose che ho scritto ed edito io, cercando di dare in particolare alle donne il senso della dignità». E poi «la domenica alle 5 del pomeriggio leggiamo il Vangelo, diciamo i Vespri insieme e poi ceniamo. "Giuliana di Norwich" è il nome scelto per il cenacolo che si è formato. Ci sono persone bravissime, anche con una forma di potere in Firenze, ma qui vengono semplicemente con il loro vino. Questa esperienza è buona perché è un’amicizia profonda che abbiamo con la preghiera. Condividiamo anche i libri».C’è una stanza dell’eremo nella quale si svolge la parte segreta e privata della sua vita; è la sua cella e, in un piccolo spazio separato dal resto della stanza, c’è l’angolo per la sua preghiera solitaria, «semplice ma dedicato a questo». Lì, alle 4 e 30 del mattino, con l’Ufficio delle Letture, la recita delle Lodi ed il canto dell’Angelus, inizia la sua giornata. Poi una corsa veloce in bici e, nella città ancora sonnolenta, la messa mattutina nella chiesa della Santissima Annunziata. Gli altri momenti, sempre nel suo angolo solitario, quasi rubati tra l’una e l’altra delle mille attività che ruotano attorno alla biblioteca, nella ricerca di un silenzio che essa può trovare solo nella propria interiorità: «È un po’ artificiale, lo so, ma non ho il diritto di chiedere altro. Io sono fuori dalle strutture e penso di doverlo accettare».
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