mercoledì 4 maggio 2022
Partendo da alcune intuizioni di Ungaretti Leone Piccioni sviluppò un’analisi meticolosa e controcorrente dell’opera del recanatese
Leone Piccioni e la primavera illusoria di Leopardi

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Torna dal 6 al 12 maggio il Premio Letterario Internazionale Ceppo Pistoia alla Biblioteca San Giorgio e in altre sedi del Comune di Pistoia (Teatro Mauro Bolognini e Palazzo Fabroni). La 66ª edizione del premio, diretto dal poeta ed educatore Paolo Fabrizio Iacuzzi e presieduto dallo scrittore Luca Ricci, vede tre finalisti in corsa per il Ceppo Biennale Racconto: Eleonora Marangoni (E siccome lei, Feltrinelli), Francesca Marciano (Animal spirit, Mondadori) e Giuseppe Zucco (I poteri forti, NN). A Fabiana Cacciapuoti, tra le maggiori esperte di Leopardi in Italia, verrà assegnato il premio Ceppo Letteratura e Vita Leone Piccioni, mentre a Fabrizio Silei viene assegnato il Ceppo per l’infanzia e l’adolescenza. Cacciapuoti terrà la sua lectio venerdì in occasione del bicentenario della canzone leopardiana Alla Primavera, o delle favole antiche, alla quale Piccioni aveva dedicato una lezione allo Iulm che verrà raccolta dalla stessa Cacciapuoti in un volume in preparazione per l’autunno da Donzelli e che qui anticipiamo.

Leone Piccioni con la figlia Gloria

Leone Piccioni con la figlia Gloria - archivio

​​Alla Primavera, o delle favole antiche, composta nel gennaio del 1822 (un anno dopo la disperazione avvertita nel Bruto Minore), in sostanza, è una canzone che affronta un tema molto importante per Leopardi, quello del rapporto tra l’uomo e la natura. Nel Bruto Minore, questo rapporto si esprimeva in una visione della vita totalmente disperata, in cui la natura non era altro che inganno e quasi godimento ironico, sadico, degli affanni umani. Un anno più tardi, Leopardi canta la primavera, ma, e questa è la chiave della canzone, la canta con un distacco, in fondo, molto ironico. L’interrogativo con cui si apre la canzone si richiama ad alcuni passi del Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica e al Saggio sugli errori popolari degli antichi. Si tratta di un interrogativo che riguarda l’esistenza, o meno, di una disponibilità della natura nei confronti delle sorti umane, esprimendo il dubbio sull’esistenza di questa disponibilità nel mondo antico, nel mito, nella favola. Tuttavia, nel poeta non c’è mai il canto per rimpianto, per tentativo di recupero di qualcosa che è scomparso, non c’è mai un moto di felicità, di entusiasmo, sia pure per illusione o per scelta poetica: c’è solo rammemorazione gelida, distante, ironica. Tutti i fantasmi evocati sono lugubri e tristi, tutti sono visti in una prospettiva inquietante: questo atteggiamento si rileva nell’interpretazione che della canzone fa Giuseppe Ungaretti, da noi seguita. Gran parte della critica ha interpretato questa canzone semplicemente come rimpianto di un’epoca passata. E la rammemorazione ironica si accompagna ad un senso di ambiguità, rafforzate entrambe come non mai da un uso del linguaggio che sembra quasi un esercizio di equilibrio. Difatti, ogni parola scelta mostra la sua derivazione colta, nel rapporto specifico col lessico latino; mentre, a loro volta, i periodi e le frasi sono costruiti in modo complesso. Si riscontra così un’ambiguità del senso generale, perché, nonostante tutto, sembra che il poeta lodi la primavera; ma un elemento interpretativo importante ci vien dato dalle Annotazioni alle dieci canzoni stampate a Bologna nel 1824, in cui Leopardi specifica: «Un’altra [canzone] alla Primavera non descrive né prati né arboscelli né fiori né erbe né foglie». […] Fin dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, fin dal saggio sull’Astronomia, la grande erudizione leopardiana non era sempre diretta, ma derivava da libri di consultazione […]. E riscontrando le scelte del poeta con quei testi, ecco che risulta la distinzione fra antiquus e postiquus, per cui, «o delle favole antiche» può voler dire, ambiguamente e ironicamente, da una parte «delle favole dell’antichità », dall’altra, «delle favole meridiane ». Cosa può significare «delle favole meridiane»? Il mito (rimasto vivissimo nella letteratura fino a Mallarmé) dice che il mezzogiorno è ora panica: ora di visioni; ora dei sensi, delle tentazioni della carne; appunto in quest’ora, sfruttando la luce piena del mezzogiorno, ecco che avvengono delle visioni. Leopardi, quindi, avrebbe voluto dire di quelle favole, che non appartengono più alla verità neanche nel volerle ricordare, ma appartengono solamente a visioni illusorie, allo stato di dormiveglia tra il sogno e il sonno, nel quale, in fondo, rispetto alla società del tempo, è costretta a vivere la poesia. Le immagini riproposte in questa canzone sono ambigue, come ambigue sono le visioni, le apparizioni non certe, come incerte sono le presenze sia pure rammemorate.

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