venerdì 12 giugno 2020
Un volume fa il punto sul caso dell’affresco “perduto” e su quello, mai eseguito, di Michelangelo. Sfida fra titani e retroscena politici con Soderini, Savonarola e l’ombra di Machiavelli
La 'Tavola Doria' (1505 circa), copia della parte centrale della “Battaglia di Anghiari” di Leonardo (Firenze, Uffizi)

La 'Tavola Doria' (1505 circa), copia della parte centrale della “Battaglia di Anghiari” di Leonardo (Firenze, Uffizi)

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Leonardo ha lavorato per circa un anno, tra il 1504 e il 1505, al cartone che lo vedeva sotto contratto con la Repubblica di Firenze, su iniziativa del gonfaloniere Pier Soderini, e in competizione con Michelangelo per decorare le pareti contrapposte, quelle longitudinali, della Sala dei Cinquecento o Sala Grande di Palazzo Vecchio. A Leonardo toccò la Battaglia di Anghiari, al giovanecompetitorinvece la Battaglia di Càscina, del cui cartone restano soltanto copie e la migliore sembra essere quella di Aristotile da Sangallo, conservata nelle collezioni del conte di Leicester.

Benvenuto Cellini e altri a quel tempo ricordavano i due cartoni come “scuola del mondo” (Benedetto Varchi nell’elogio funebre di Michelangelo scrisse che il suo “insegnò a disegnare, e dipingere per molti anni a tutti coloro che lo studiarno” e Vasari ricordò che Andrea del Sarto e altri giovani artisti passavano giornate davanti ai disegni di Leonardo e di Michelangelo). Ma oggi di questi “modelli” non resta praticamente nulla. Vasari – se fosse vero, verrebbe da dire: quale coraggio! –, potrebbe aver distrutto ciò che restava dell’opera di Leonardo, molto fatiscente a causa della tecnica sperimentale usata dal Vinciano, oppure potrebbe averlo nascosto sotto le sue nuove decorazioni della Sala Grande (abbastanza improbabile). Il fatto è che quell’opera e quel confronto hanno ancora un sapore mitico, pensando che forse mai nella storia della pittura si è giocata una sfida così intensa fra due massimi genî.

Non vale – per quanto lo sia nei fatti – il solito richiamo agli “atti del convegno”, quello che si tenne fra Firenze e Vinci nel 2016 per aggiornare lo status quaestionis con una ventina di specialisti internazionali. È un volume a molte mani, ma in piena regola. Non vuole dare la sensazionale scoperta, che ancora non c’è, ma allestire una sorta di sala diagnostica dei documenti, delle fonti, del contesto storico e ambientale, delle vicende politiche e di quelle socio–culturali. Insomma, un consesso multidisciplinare perché l’epoca che viviamo, costringe a lavorare insieme per ricomporre ciò che per decenni è stato sezionato (talvolta con ipotesi avventurose).

Nasce dunque nel segno di un “nuovo approccio” disciplinare – come scrivono nella premessa i curatori (R. Barsanti, G. Belli, E. Ferretti, C. Frosini) – questo volume intitolato didascalicamente La Sala Grande di Palazzo Vecchio e la Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, edito da Olschki (pp. 608, euro 60) e aperto dalla premessa dello storico Adriano Prosperi.

Se dicessimo “questa Battaglia non s'ha da fare”, varrebbe tanto per Leonardo quanto per Michelangelo. Eppure una battaglia ci fu, fra due calibri da novanta. Ma quando nel Codice Madrid II del Vinciano si legge che dopo aver faticato un anno, mentre si accingeva a dipingere l’opera ecco il bastone fra le razze dell’“accidente meteorologico” – così si sarebbe espresso Ghiberti (che parlava del temporale dipinto da Ambrogio Lorenzetti) –, allora cominciamo davvero a pensare che una maledizione gravava su quel dipinto. Ma sentiamo Leonardo: «Addì 6 di giugno 1505... cominciai a colorire in Palazzo. Nel qual punto di posare il pennello si guastò il tempo... Il cartone si stracciò, l’acqua si versò e ruppesi il vaso… che si portava... E piovve insin a sera acqua grandissima e stette il tempo come notte». Molti si chiederanno a questo punto se la storia di quel cartone sia finita lì. Una ventina d’anni fa – ricorda Marco Campigli nel suo saggio – Carmen Bambach estrasse dal cilindro l’ipotesi credibile che quel disegno fosse solo la copia di quello costato un anno di lavoro a Leonardo; cioè la copia – spega Campigli – usata per la trasposizione dallo studio alla pittura. L’ipotesi della doppia redazione oggi prevale.

Gli aspetti architettonici su cui si fonda e si trasforma nel tempo la Sala Grande – per esempio le finestre centinate alte circa due metri di epoca tardo quattrocentesca, su cui si sofferma Emanuela Ferretti, di cui restano come traccia le cornici di arenaria che per molto tempo, fino al 1969, erano state sottovalutate o quasi ignorate dagli storici, mentre attestano le modificazioni del Cinquecento –, oppure i rapporti fra le strutture che si trovano nel sottosuolo del Teatro romano che venne cancellato dalle costruzioni medioevali, o anche, non meno importanti, i moventi ideologici, i meccanismi istituzionali, i risvolti politici: sono tutti fattori – spiegano i curatori – decisivi nella nascita di un ambiente “pubblico” che tenta di diradare quella “nebbia” di cui parla Guicciardini nel rapporto tra popolo e potenti. E Prosperi gli fa eco quando sottolinea che la Sala del Consiglio era nata «come soggetto politico»: lì dovevano riunirsi i cittadini per il governo della città.

Era l’idea di Savonarola. Già, la chimera del governo popolare, mentre Machiavelli aveva scritto che il tiranno si veste di apparenza e «cerca di apparire religioso». In sostanza, ripete Prosperi, il governo popolare era quello di una élite di potere repubblicano. Ma Leonardo e Michelangelo si riferivano a battaglie «di cui non conoscevano i dettagli». Si potrebbe chiedere, allora, a parte l’impulso dato da Soderini “principe mancato”, chi furono i consulenti politici di quelle opere? Non esistevano, forse, consulenti teologici per le opere sacre? O vogliamo ancora credere alla favoletta che gli artisti – l’“omo sanza lettere” Leonardo, per esempio – fossero a conoscenza di ogni cosa che veniva loro commissionata; ovvero non dovevano seguire i desiderata dei committenti e le indicazioni dei loro consulenti? Ma, ecco il convitato di pietra (neanche tanto, anzi un’ombra discreta ma efficace) Niccolò Machiavelli: anch’egli “sanza lettere” (Carlo Ginzburg ha dedicato vari studi a questo pensatore mettendo proprio in luce che i testi che il secondo cancelliere della Repubblica Fiorentina ebbe la fortuna di leggere fin da giovane erano quelli comprati dal padre e diventando adulto si avvalse delle traduzioni che fiorivano da parte degli umanisti, oppure anche di edizioni di seconda mano). Ed è probabilmente Machiavelli il garante delle decorazioni per la Sala Grande; è lui infatti a controfirmare il contratto di Leonardo nel 1504.

Prosperi si domanda se i pensieri del cancelliere s’insinuarono nella mente di Leonardo: i due, tra l’altro, si erano incontrati probabilmente da Cesare Borgia, fra Urbino e la Romagna nel 1502. Il primo a immaginare quella grande sala che avrebbe ospitato un governo “popolare” fu appunto Savonarola, che immaginava un governo di ispirazione teocratica e ne fece le spese. Profezia e politica difficilmente convivono in pace a lungo. Ma era stato proprio il frate nel 1495 a convocare Leonardo, Michelangelo, Giuliano da Sangallo e Simone del Pollaiolo per ascoltare i loro suggerimenti su come costruire quello spazio.

Questa ricerca ha fatto passi notevoli con le intuizioni di Nicolai Rubinstein – come spiega Giovanni Ciappelli –, secondo l’idea di leggere le trasformazioni del palazzo come specchio delle evoluzioni politiche; queste anche interpretate da Vasari nei suoi affreschi, secondo Francesca Funis e Francesca Borgo, come momento epico e “teatro della rappresentazione ducale”. Su questo volume indispensabile per capire gli sviluppi delle ricerche storiche su un pezzo di storia fiorentina e rinascimentale, bisogna però aggiungere qualche riga dedicata a un grandissimo studioso un po’ dimenticato, un discepolo della Scuola viennese (Riegl e Dvorák), Johannes Wilde. Ungherese, poi naturalizzato austriaco e, dopo l’Anschluss, diventato inglese, Wilde – come sottolinea Bruce Edelstein – resta l’autore del saggio sulla Sala Grande ancora oggi di riferimento per gli studi, sebbene risalga al 1944. Wilde era di lingua tedesca e venne anche deportato in Canada nel 1940 ingiustamente sospettato di intelligenza coi nazisti (la moglie, Julia Gyárfá, anch’ella storica dell’arte, era ebrea); rientrato in Inghilterra l’anno dopo venne costretto a compiere le sue ricerche agli arresti domiciliari in quanto residente straniero di nazionalità nemica. Nonostante questo riuscì a realizzare i disegni con tutte le decorazioni delle quattro pareti della Sala Grande (nessuno si rese conto che erano funzionali alla realizzazione di un modellino per studiare il luogo a 360°) e a indagare la storia delle opere di Leonardo e Michelangelo con nuove metodologie (già negli anni Venti adottò le radiografie per studiare la composizione dei dipinti, e fece largo uso della fotografia per studiare i disegni michelangioleschi). Non c’è solo studio nelle ricerche di Wilde sulla Sala Grande. Come scrive Edelstein, in un momento politico difficile come quello in cui visse, «dove l’esistenza e il significato di un’opera d’arte sono pienamente spiegabili attraverso il riferimento a un evento politico» l’analogia con la Republica Fiorentina non sembra casuale. Questo grande studioso ci lascia dunque un monito sottinteso: la storia dell’arte non è mai avulsa dal proprio tempo. È sempre storia contemporanea.

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