venerdì 11 novembre 2016
Gli esordi del cantautore sono nel segno della poesia. Fu la scoperta della voce a portarlo alla fusione di parola e suono.
Leonard Cohen (Reuters/Jessica Rinaldi)

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«Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l’inizio e la fine di una frase». Potrebbe essere una dichiarazione dell’autore di «M’illumino / d’immenso», o di «Odi et amo». Ma non è Ungaretti, qui, non Catullo. È un giovane Leonard Cohen, che nasce come poeta. Una frase lancinante quella del promettente autore di alcuni libri di versi e di un’incisione di sue poesie recitate: poesia per voce, come alle origini orali del genere.

Niente musica, agli inizi, Cohen è un autore di libri, scritti, che, scoprendo di possedere una voce non comune, incide. Non è strana in Nordamerica, come nel mondo anglofono in genere, come in Africa, Caraibi, Est Europa, la pratica della poesia, lirica, insomma quella scritta sul libro, in forma orale, in pubblico come in sala d’incisione. Pratica che seguo da tempo, che non muta una sillaba o una virgola della poesia scritta, ma la rivive nella voce. In Italia, Francia, Germania, pratica non diffusa. Il poeta si affida esclusivamente alla pagina stampata e spesso legge, invitato, e spesso bene, ma dalla pagina, come illustrando, accompagnando con la voce e la presenza individuale, quanto è scritto. Chiunque ascolti un’incisione di Dylan Thomas, o di Derek Walcott, o di Wole Soyinka, sente che esiste un’altra tradizione, che sento profondamente. Per nulla opposta ma semplicemente diversa, complementare.

Il giovane poeta Cohen si trova in una situazione di oralità diffusa della parola poetica scritta (è la tradizione di Emerson e Whitman, che certo il grande Leonard ha letto e metabolizzato), e si comprende come gli insuccessi dei primi libri di versi e la scoperta della voce lo portino a divenire un autore che musica e canta le proprie parole.La sua origine è differente da quella di altri grandi come Bob Dylan o Neil Young, anche se la sostanza è la stessa: Dylan è importante per l’esito poetico generato dalla fusione delle sue parole, della sua voce e della sua musica. Le parole, da sole, stampate, non hanno valore, né mirano ad averne, dato che Robert Zimmerman, pur assumendo il nome di un poeta mitico, Dylan Thomas, si propone come musicista e voce, non poeta. Poeta lo definiscono gli altri.

Idem per Cohen, che vale, e molto, per quanto di profondamente poetico crea con la fusione di parole, musica, suono, voce. Con la differenza che egli nasce poeta e i suoi testi manterranno sempre una tensione linguistica più attenta e vibrate di quella di altri colleghi.


Nascere poeta è una complicazione per un autore che, dotato di voce e musicalità, si accinge a cantare la sua poesia. Poesia che sulla pagina esige e conosce solo rigore assoluto, nella musica deve perdersi, umiliarsi a dogmi metrici mortificanti agli inizi, ma necessari. Ecco perché, anche se amo Cohen in toto, preferisco la sua seconda fase, dopo i cinquanta, meno legata al desiderio di poesia, più profonda nella voce, nella vera poesia che può conseguire un cantante e autore.

La sua voce cambia e si approfondisce, si abbassa, perché ha saputo scendere al silenzio, grazie alla vita spirituale di Cohen: sempre ebreo e contemporaneamente monaco buddista alla ricerca del silenzio. Una storia vera e dura, non una americanata da New Age, una storia piena e ricca. Il Cohen dopo i cinquanta: la sua voce si abbassa e diviene più profonda, dopo che la meditazione monastica lo ha portato a una lunga pratica del silenzio. Sì, ore, giorni di silenzio che modificheranno la voce. La voce, non la poesia ispirava Leonard Cohen, una Voce. Che ha onorato da giovane con poesia vera e propria, e poi, più felicemente, con la strana, indefinibile poesia del rock, il mistero della magnifica, straziante Janis Joplin, morta giovane dissolutamente, che Leonard aveva fugacemente, da ragazzo, amato. E, pudicamente, cantato. Se ne va un artista che diffonde terrena, tenera, calda beatitudine.

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