domenica 9 agosto 2009
Perché dormiamo? A cosa serve realmente questa peculiare attività che occupa un terzo della nostra esistenza ed è comune a tutte le specie animali? Due neuropsichiatri avanzano un'ipotesi che potrebbe risolvere quello che resta uno dei grandi misteri insoluti della biologia.
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Ci dormiamo su, più o meno tranquillamente, ogni notte. Ma a cosa serva realmente il sonno, quella piacevole attività che occupa circa un terzo del tempo che ci è dato vivere quaggiù, resta in gran parte oscuro. Uno dei grandi enigmi ancora insoluti della biologia e della neurobiologia in specifico, nonostante il campo sia ormai battuto da decenni di studi indefessi. E non è detto che l’enigma debba per forza avere una soluzione netta e univoca: una teoria che può suonare bizzarra ai profani, ma che proprio per l’assenza finora di una riconosciuta e risolutiva risposta ha trovato la forza di resistere, è proprio la cosiddetta «null hypothesis», la teoria per cui il sonno sarebbe sì un fenomeno utile a vario titolo, ma non, in definitiva, «essenziale». Non avrebbe cioè uno scopo basilare e universale. Il sonno potrebbe essere insomma il residuo di una capacità o attitudine dell’organismo sviluppatasi nel corso del processo evolutivo – magari durante le lunghe pause che l’animale si concedeva quando non aveva necessità di procacciarsi il cibo e poteva beneficiare così di un prezioso risparmio energetico – ma oggi non legata a una funzione univoca e cruciale. Eppure, come hanno chiarito Giulio Tononi e Chiara Cirelli, neuropsichiatri italiani dell’Università del Wisconsin, diventati negli anni due nomi di punta a livello mondiale in materia, sono molti anche i motivi che portano a scartare l’ipotesi «zero». Per esempio il fatto che si può ormai sostenere con buona approssimazione che tutte le specie animali «dormono» – considerando il sonno come uno stato ciclico e reversibile, caratterizzato spesso da immobilità e sempre da una ridotta o ridottissima capacità di rispondere agli stimoli esterni (a differenza della «veglia quieta»). Casi che venivano ritenuti una smentita a questa constatazione hanno rivelato più di una sorpresa a un’osservazione più accurata: come quello del delfino, di cui è stata appurata la capacità di dormire un sonno mono­emisferico, «disattivando» solo un emisfero per volta e potendo così continuare nel movimento natatorio circolare, o alcuni pesci delle barriere coralline, per i quali è stato provato un analogo fenomeno, con un movimento costante delle pinne durante il «riposo». Altro motivo, la necessità costante fra le specie di recuperare il sonno perduto e soprattutto la presenza di effetti collaterali pesantemente negativi quando la veglia venga prolungata, artificialmente, per un tempo eccessivo. Fino alla morte: questo per i roditori e gli scarafaggi come per gli esseri umani. Il sonno insomma sembra servire a qualcosa di essenziale, niente affatto accessorio. Ma, appunto, a cosa di preciso? Un’ipotesi potenzialmente rivoluzionaria e che ha richiamato l’attenzione degli specialisti viene proprio da Tononi e Cirelli, che hanno esposto i risultati delle loro ultime indagini in un articolo uscito a fine aprile sulla rivista Science . Secondo i due ricercatori, lo scopo primario del sonno sarebbe quello di ridurre il numero delle sinapsi – cioè i punti di congiunzione fra i neuroni, fondamentali per il passaggio delle informazioni fra una cellula nervosa e l’altra – createsi durante il giorno, conservando solamente le connessioni neuronali più forti. «L’attività sinaptica è dispendiosissima in termini energetici – spiega al telefono Chiara Cirelli – anche in uno stato di veglia quieta almeno il 70% di tutta l’energia del cervello è indirizzata a questo scopo, ossia ad alimentare le pompe ioniche che mantengono i neuroni ad un certo livello di depolarizzazione. Aumentando le sinapsi e la loro potenza la quantità di energia necessaria aumenterebbe ancora di più, fino a rendere il processo insostenibile. Oltre al fatto che, almeno nell’animale adulto, le sinapsi diventando più forti tendono anche a diventare più grandi e, fisicamente, non ci sarebbe spazio a sufficienza nel cervello». Un dato, questo, ormai accettato dalla comunità scientifica. «Il fatto è che in genere – continua Cirelli – si pensa che tale equilibrio sia mantenuto costantemente, in ogni momento, anche durante la veglia, cosa che a noi pare improbabile: nella veglia le condizioni neurochimiche – i neurotrasmettitori, la noradrenalina e il glutammato che sono presenti in alte concentrazioni – favoriscono il potenziamento, non la depressione sinaptica. La prova definitiva di quello che pensiamo sarà, un giorno, riuscire a seguire l’attività anche di singole sinapsi in un animale». Cirelli e Tononi sono arrivati alle loro conclusioni lavorando sul ratto – a cui faceva riferimento un articolo pubblicato l’anno scorso su Nature Neuroscience – e, per il loro ultimo lavoro su Science , sui moscerini della frutta: le immagini al microscopio del cervello degli insetti tenuti svegli per 24 ore hanno mostrato alti livelli della proteina sinaptica chiamata Brunchpilot (Brp), una delle sostanze coinvolte nel meccanismo di comunicazione dei neuroni. Livelli che si abbassano notevolmente durante il riposo. L’ipotesi di una «omeostasi sinaptica», del sonno come strumento per ristabilire l’efficienza complessiva delle sinapsi, acquista spessore con il passare del tempo e delle ricerche, anche a detta degli scettici. «A questo punto, richiede la nostra attenzione – ha commentato su The Scientist Robert Stickgold, docente di psichiatria all’Harvard Medical School di Boston – perché se si rivelasse vera cambierebbe tutto il nostro modo di considerare la questione». tickgold è tra i sostenitori dell’ipotesi che vede nel sonno la fase in cui il S cervello riattiva e consolida – con il cosiddetto replay – il depositum di conoscenze memorizzate durante il giorno. Il che, però, non è detto sia in contraddizione con la soluzione «italiana»: «Il replay esiste, ma solo all’inizio del sonno – chiosa Cirelli – . E, in fondo, è comprensibile: se durante la veglia due neuroni vengono connessi fortemente, anche 'lasciati andare' tenderanno a 'scaricare' insieme comunque. Quello che a noi sembra importante è il bilancio finale e complessivo della fase di sonno, cioè un depotenziamento sinaptico». Anche le prospettive da un punto di vista medico di questa scoperta, se venisse confermata, sarebbero rilevanti, spiega sempre Cirelli: «Poiché non abbiamo ancora un quadro chiaro del fenomeno, oggi è molto difficile stabilire obiettivamente se tanti trattamenti farmacologici o anche comportamentali che vengono prescritti a chi soffre di patologie legate al sonno abbiano effetto e in che misura. Si possono usare molti tipi di test, come quelli di vigilanza, ma se avessimo dei parametri più precisi, più quantitativi, si potrebbe intervenire con molta più efficacia. Per esempio, secondo la nostra idea una pillola o un trattamento che produca più 'onde lente' – onde elettriche di ampiezza superiore a 75 microvolt e dalla frequenza di 2 Hz, prodotte dal cervello nella fase di «sonno profondo» ndr – sarebbe sicuramente migliore rispetto a una terapia che permette di dormire anche dieci ore ma senza onde lente». Ma lo scopriremo forse solo vivendo. O dormendo.
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