lunedì 6 maggio 2013
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Riprende dal Messico il cammino internazionale del «Cortile dei Gentili». Da oggi al 9 maggio l’iniziativa promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura, guidato dal cardinale Gianfranco Ravasi (nella foto), terrà infatti la sua prima tappa fuori dall’Europa, esattamente il 6 maggio a Monterrey, il 7 a Puebla e l’8 a Città del Messico; saranno approfonditi i temi della pastorale della cultura e dell’emergenza educativa in una società come quella messicana lacerata da gravi conflitti sociali (primo fra tutti il dramma del narcotraffico) e cattolica all’87% ma con una vigorosa impronta anticlericale. Momento forte del «Cortile» è infatti, il pomeriggio dell’8 maggio, la tavola rotonda su «Laicità e trascendenza» che vedrà il confronto tra il cardinal Ravasi e alcuni noti docenti universitari non credenti: Eduardo Gonzales di Pierro, Carlos Pereda Failache, Julio Hubbard, Hugo Hiriat, Carlos Ornelas. Il dibattito sarà poi replicato «a porte chiuse» il pomeriggio del 9 maggio presso l’Università Unam con un gruppo di intellettuali non credenti guidati da Guillermo Hurtado; è anche la prima volta che un porporato viene invitato a parlare nell’università considerata la più importante dell’America latina. Il 7 maggio a Puebla il cardinal Ravasi riceverà inoltre la laurea «honoris causa» in Scienze umane; in questa pagina presentiamo una parte della sua «lectio magistralis».Finora Puebla era per me un simbolo della cultura creola, da quando nel 1987 l’Unesco l’aveva inserita nel Patrimonio dell’Umanità. L’incontro tra la cultura spagnola e quella autoctona era ai miei occhi un esempio fecondo di interculturalità, rappresentato simbolicamente dalla ceramica bianca e blu talavera e dall’esuberanza decorativa dell’architettura barocca. C’è, poi, un segno che mi è particolarmente caro essendo stato per molti anni prefetto dell’antica Biblioteca Ambrosiana di Milano, mia città di origine. Si tratta della Biblioteca Palafoxiana, che reca la memoria di un vostro grande vescovo, Juan de Palafox y Mendoza, e che costituisce la più importante e antica biblioteca latino-americana in materia teologica cristiana, soprattutto coi suoi incunaboli, con le sue migliaia di volumi e la sua Bibbia poliglotta cinquecentesca. Infine, Puebla incarnava per me, come per tutti i teologi e molti cristiani impegnati ecclesialmente, la grande esperienza vissuta dalla Chiesa latino-americana con l’incontro voluto in questa città da Giovanni Paolo II, dal 27 gennaio al 13 febbraio 1979, ossia la III Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, dal titolo: «L’evangelizzazione nel presente e nel futuro dell’America Latina». 
L’UNIVERSITÀ, UNITÀ E MOLTEPLICITÀLa lectio che ora svolgerò si inserisce, perciò, in un orizzonte che già considero familiare, anche se è la prima volta che ho potuto percorrere la straordinaria planimetria della vostra città, col suo disegno così armonico tracciato sulle coordinate verticali e orizzontali e anche se il mio discorso è sviluppato in uno spagnolo purtroppo molto fragile per mia incapacità. Cercherò, dunque, di approfondire alla luce della fede cristiana solo due temi che si riassumono in un binomio lessicale: «università e cultura». Esso è presente nel titolo stesso della lezione, così come mi è stato assegnato: «Ripensare l’università in chiave di dialogo tra fede e cultura». Il primo soggetto è, quindi, l’università, un vocabolo che designa per eccellenza la sede della ricerca, dello studium superiore. Ora, il termine di sua natura fa riferimento all’uni-versum, cioè a una totalità che ha molti percorsi, ha differenti «versi», ossia movimenti divaricati tra loro, ma che alla fine vengono ricondotti all’unità. La molteplicità dei saperi si ricompone in un’armonia che può essere dialettica ma feconda, un po’ come accade al duetto musicale in cui possono coesistere e intessersi voci antitetiche come un basso o un soprano. È ciò che avviene anche nella polifonia ove il moltiplicarsi delle voci, il loro interloquire, il loro accavallarsi creano in ultima analisi la meraviglia unitaria della composizione armonica. È quello che si scopre anche nell’universo fisico ove si ha la complessità e varietà delle componenti e delle leggi, ma al tempo stesso si ha il convergere alla fine in un «cosmo», cioè in un insieme «ordinato», come dice appunto il vocabolo greco kósmos.. Attualmente, però, nella stessa astrofisica, così come accade nelle nostre società, ha preso consistenza una diversa concezione, quella del «multiverso». Quel primo «universo» ove eravamo collocati si rivela inserito in una molteplicità dispersa e persino indecifrabile di altri universi. Si perde, così, la capacità di ritrovare un’unità globale di senso. Questa visione, che di per sé è di ordine fisico, può diventare simbolica per la stessa università e per l’intera società e cultura. Siamo, infatti, di fronte a molti sistemi in sé autonomi nei quali l’umanità si muove, senza però trovare un centro, senza scoprire quello che lo scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry, il famoso autore del Piccolo principe, definiva come «il nodo d’oro che tiene insieme tutte le cose. E allora tutto manca». Emblematico di questa «decostruzione», per usare il noto termine derridiano, è il processo subìto da una categoria capitale per la filosofia e la teologia, la «verità». Si confrontano, infatti, due concezioni antitetiche.LE DUE "VERITÀ"La prima è quella tradizionale, classica e cristiana, che considera appunto la verità come un universo compatto che trascende i singoli individui; la verità ci precede e ci eccede, e ha un primato sia ontologico sia gnoseologico. Il filosofo tedesco Theodor W. Adorno, nei suoi Minima moralia (1951), osservava che, come avviene per la felicità, la verità non la si ha, ma vi si è, non è un oggetto da afferrare e manipolare, ma è un’atmosfera, un orizzonte in cui si è inseriti. Un importante scrittore come Robert Musil, nel suo Uomo senza qualità, un affresco incompiuto del primo Novecento, affermava che «la verità non è come una pietra preziosa che si mette in tasca, bensì è come un mare nel quale ci si immerge e si naviga». Si tratta fondamentalmente della classica concezione platonica espressa nel dialogo Fedro mediante l’immagine della «pianura della verità»: la biga dell’anima corre su questa pianura per conoscerla e conquistarla, ma essa è trascendente rispetto all’individuo, è in sé data, perciò è nostro compito quello della ricerca. E Platone, nell’Apologia di Socrate, continuava: «Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta». Anche per la teologia cristiana la verità ha una realtà che ci trascende e supera, e dovere dell’uomo è essere pellegrino all’interno dell’assoluto della verità. In questa luce si comprende come la verità si identifichi con la stessa divinità, tant’è vero che il Cristo giovanneo dichiara: «Io sono la Via, la Verità e la Vita» (Giovanni 14,6). C’è, però, nel multiverso delle culture contemporanee un’altra concezione ben differente della verità. Essa ha attraversato anche i secoli scorsi, affiorando qua e là.BENEDETTO XVI  CONTRO IL LEVIATANOSignificativa è l’asserzione del filosofo inglese Thomas Hobbes, nel suo Leviathan (1651): «Auctoritas non veritas facit legem». È, questo, il principio dell’assolutismo e anche del contrattualismo: l’autorità civile o religiosa può decidere la norma etica e, quindi, indirettamente la verità, in base alle convenienze e agli interessi del potere dominante. Tale visione fluida del vero, del bene e del male ha dato origine alla morale della «situazione», ha alimentato il soggettivismo e il relativismo nei cui confronti si è ripetutamente espresso Benedetto XVI. Tale definizione fluida della verità è stata acquisita nell’orizzonte dell’antropologia culturale, come ha osservato il pensatore francese Michel Foucault, secondo il quale, studiando le varie civiltà, siamo invitati a considerare come mutevole, relativa e contingente la categoria «verità». Essa è piuttosto simile a una Medusa cangiante che muta aspetto a seconda dei contesti e delle circostanze. Paradossalmente si può dire che, come il ragno elabora estraendo da sé il filo della sua ragnatela secondo disegni sempre nuovi, così può fare l’uomo creando da sé sistemi molteplici, variabili e fragili di valori. Per una filosofa statunitense, Sandra Harding, il noto detto di Cristo riferito da Giovanni (8,32) dev’essere così trasformato: «La verità non vi farà liberi», perché essa è un peso estrinseco, una cappa di piombo imposta dall’esterno alla libertà della ricerca personale, una sterilizzazione della dinamicità e dell’incandescenza del pensiero. Di fronte a questa visione, che spesso è condivisa acriticamente a livello popolare, è necessario ritrovare un asse fermo veritativo e morale, altrimenti si cadrebbe nella dissoluzione sociale, nella frammentazione civile, nell’individualismo egoistico. L’università è la sede della ricerca di senso e, quindi, della verità, non per imporre un primato di dominio, ma per offrire una guida che partecipi della realtà oggettiva dell’essere e dell’esistere. Il Decalogo, in questo senso, è esemplare: esso incarna quello che si denominava come «legge naturale». Essa non è un’imposizione estrinseca, ma è una struttura antropologica costitutiva che è declinata in forme concrete nei vari soggetti e contesti, che interpella la libertà e la coscienza e che, perciò, esige una personale adesione e opzione fondamentale.LA CULTURA: UNA CATEGORIA TRASVERSALEGiungiamo, così, alla seconda categoria, la cultura, un termine che è divenuto ai nostri giorni una sorta di parola chiave che apre le serrature più diverse. Quando il termine fu coniato, nel Settecento tedesco (Cultur, divenuto poi Kultur), il concetto sotteso era chiaro e circoscritto: esso abbracciava l’orizzonte intellettuale alto, l’aristocrazia del pensiero, dell’arte, dell’umanesimo. Da decenni, invece, questa categoria si è «democratizzata», ha allargato i suoi confini, ha assunto caratteri antropologici più generali, sulla scia della nota definizione creata nel 1982 dall’Unesco, tant’è vero che si adotta ormai l’aggettivo «trasversale» per indicare la molteplicità di ambiti ed esperienze umane che essa «attraversa». Questa genericità o, se si vuole, «generalismo» in realtà ci riporta alla concezione classica allorché, per parlare di «cultura», erano in vigore altri termini sinonimici molto significativi: pensiamo al greco paideia, al latino humanitas, o al nostro «civiltà». È in questa prospettiva più aperta che la parola «cultura» è stata accolta con convinzione dal Concilio Vaticano II che, sulla scia del magistero di Paolo VI, la fa risuonare ben 91 volte nei suoi documenti. Partendo proprio dal Concilio con la Gaudium et Spes, il tema è stato sviluppato in vari documenti del Magistero tra encicliche ed esortazioni apostoliche, per approdare a molte altre pagine ecclesiali autorevoli, capaci alla fine di comporre un vero e proprio arcobaleno tematico nel quale si riflettono le diverse iridescenze di una nozione decisiva per la stessa teologia e per la pastorale. In sintesi, come si esprimeva Giovanni Paolo II nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (1995), potremmo dire che «qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri, il mistero di
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