giovedì 19 settembre 2013
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Sembrano i brevi rilievi ondulati che la risacca lascia sull’arena. Adagiati sulle curve di livello, i profili ad anse regolari hanno la fluida eleganza che deriva dal movimento: sono gli elementi che nel grande plastico raffigurano quattro gruppi di edifici, alti e oblunghi, e avrebbero potuto costruirsi a metà degli anni Sessanta vicino al raccordo che unisce Pavia all’autostrada Milano-Genova. Sarebbe stato un nuovo grande quartiere per oltre undicimila abitanti, il cui progetto era stato affidato ad Alvar Aalto, uno dei massimi esponenti dell’architettura del XX secolo. Il maestro finlandese vi lavorò al 1966 al 1968, con la collaborazione del torinese Leonardo Mosso. Sarebbe stato un quartiere modello. Non solo per la qualità delle architetture, ma per il concetto urbanistico che le sottendeva, volto a realizzare un polo dotato di tutti i servizi – asilo, scuola, chiesa, centro commerciale – ma alla fine non se ne fece nulla. Oggi, reperiti dall’archivio del costruttore Ausano Febbroni, per la prima volta i progetti sono esposti in una mostra organizzata dall’Ordine degli architetti e curata da Luca Micotti e Andrea Vaccari, a Pavia dal 21 settembre al 6 ottobre (Spazio arti contemporanee del Broletto; info: www.aaltopavia.eu). «Aalto – spiegano i curatori – reinterpreta in senso organico tanto le regole di cui si era dotato il movimento moderno, quanto quelle del castro romano pavese, giocando con l’orografia del solco vallivo del Ticino, con le più sottili pieghe del suolo, con i piccoli corsi d’acqua, la rete dei percorsi pedonali, il verde attrezzato agricolo, e tenendo conto del vicino complesso monumentale della basilica di San Lanfranco».Non era nuovo a progetti in cui l’imponenza delle costruzioni si sposa con la fluidità della forma: era il 1946 quando Alvar Aalto progettò la Baker House, la residenza per studenti del Mit a Cambridge, Massachusetts, dove all’epoca insegnava. Un edificio di sette piani lungo più di duecento metri, che appare ancora più che attuale. In pianta accentuatamente sinuoso, le stanze hanno arredi e sistemazioni diversi, così che abbiano il sapore di appartamentini singoli, e guardano tutte al vicino fiume. Scale e luoghi di passaggio sono relegati a nord, così che gli ambienti dove gli studenti vivono e si incontrano siano tutti pieni di luce. Un edificio grande, ma ricco di variazioni: non uniforme o ripetitivo. Negli anni successivi Aalto costruì diversi altri edifici simili, per abitazione: a Berlino, Brema, Lucerna, per citarne alcuni, di notevoli dimensioni ma modulati con flessuosa originalità così da adagiarsi, più che imporsi nel sito.Ma, a differenza di questi, il progetto di Pavia rimase sulla carta, e non fu l’unico. Negli stessi anni Aalto fu chiamato a progettare un centro culturale a Siena, Villa Sambonet a Milano, un hotel commissionato a Torino, Villa Erica per la nipote di Adriano Olivetti e i Magazzini Ferrero vicino al capoluogo piemontese: tante occasioni perdute. L’unico suo progetto compiuto nel nostro territorio è la chiesa di Riola di Vergato, voluta dal gruppo di professionisti che raccolse il cardinal Lercaro a Bologna per dotare di centri di culto le nuove periferie. Né Aalto è stato l’unico importante personaggio della cultura architettonica che non poté realizzare progetti che gli erano stati richiesti per il nostro territorio. Tra gli altri Le Corbusier: chiamato dallo stesso gruppo lercariano per erigere una chiesa a Bologna, propose un progetto – simile a quello che sarebbe stato realizzato postumo a Firminy, in Francia, solo pochi anni fa – ma non ebbe fortuna. Anche Frank Lloyd Wright e Louis Kahn furono chiamati in Italia, a Venezia: il primo per un palazzo sul Canal Grande, il secondo per il Palazzo dei Congressi, e anche in questi casi non ne venne fuori alcunché.Sono occasioni perdute, e ne è piena la storia dell’architettura, non solo qui da noi. Hans Scharoun preparò una quantità di disegni di edifici di culto, di teatri e centri culturali mai realizzati. Kenzo Tange studiò un’espansione di Tokyo sull’acqua che, se fosse stata compiuta, avrebbe dato un volto decisamente nuovo alla capitale giapponese, affastellata nella sua tumultuosa vicenda. Per non dire di Frei Otto, che dagli anni Cinquanta prese a immaginare leggere tensostrutture e progettò un’intera città futuribile per l’Antartide. Architettura è anche questo: proposta, immaginazione. Progettare è guardare in avanti un futuro che potrà concretarsi o restare utopia. Magari qualcun altro vi attingerà. È importante quindi che anche i progetti non realizzati siano conosciuti: da occasioni perdute possono diventare stimolo per nuove idee.
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