Osvaldo Licini, “Omaggio a Cavalcanti” (1954) - .
Monte Vidon Corrado La “regione delle madri” a cui si riferisce esplicitamente Osvaldo Licini in una lettera scritta nel 1941 al teosofo fondatore del Primordialismo (e della rivista “Valori primordiali”) Franco Ciliberti, potrebbe essere confusa, data la scelta fatta già nel 1926, dopo aver sposato la pittrice svedese Nanny Hellström, di stabilirsi definitivamente nella casa natale di Monte Vidon Corrado, con una qualche riduzione a un regionalismo pittorico, rurale e magico, alla maniera dei regionalisti americani come Alexandre Hugue e Thomas Hart Benton che negli anni Trenta dipingono campi e colline coltivate le cui forme evocano corpi muliebri o materni.
La grande madre di Licini non ha che fare con quel mito, perché è al tempo stesso più arcaica – naturalmente, può far pensare oggi ai lavori sul matriarcato dell’archeologa lituana-americana Marija Gimbutas, ma prima ancora al Mütterecht di Bachofen (che attirò persino Marx ed Engels) – e più astratta; è una levitazione verso regioni astrali da cui nasceranno i cicli dell’Amalassunta e degli Angeli ribelli; le viscere della terra dove afferma di essere disceso – «per conservare incolumi alcuni valori immateriali, non convertibili, che, certo appartengono al dominio dello spirito umano» – forse avrebbero mosso Carl Gustav Jung a ricercare in Licini le stesse terre che Goethe prefigura quando, nel Faust, evoca la regione delle Madri. Ma, attenzione, questa visione romantica, che Jung proietta, proprio per tenerla a bada, nella teoria degli Archetipi, può essere pericolosa e occorre diffidare dello stesso Goethe, che in punto di morte chiedeva «più luce», quando afferma che «chi è disceso fino alle Madri non ha più nulla da temere». In realtà, discendere fino alle Madri può significare procedere incontro alla morte, e di questo si era occupato più di vent’anni fa il filosofo spagnolo Félix Duque nel suo saggio Il fiore nero.
Il regressus ad uterum è quasi sempre un annientamento vitale che conduce al ritorno in una origine che coincide con la fine di tutto. Ma Licini, questo, lo sapeva bene e non idolatrava la natura, anzi: era sì «bella – scrisse –, ma con frodo». E se, come confessò la moglie all’indomani della sua morte nel 1958 (a 64 anni), le sembrava di vederlo ancora davanti alla finestra aperta sul panorama di Monte Vidon Corrado, quando la chiamava preso dall’estasi che gli procurava la visione della sua terra, delle sue forme, questo non vuol dire che il mondo da cui nasce la sua pittura, il paesaggio che ne è il pressoché unico e continuo fil rouge, sia un mondo senza conflitti.
Osvaldo Licini, “Marina” (1922) - .
Anche quando dipinge negli anni Venti una serie di quadri di marine, alcuni esposti nella importante mostra allestita nel suo paese natale, dove fu sindaco per due mandati subito dopo la guerra – 90 dipinti e 30 disegni, alcuni inediti, suddivisi negli spazi della sua casa e il Centro Licini (fino all'8 dicembre) –, in quei litorali, fra spiaggia marchigiana e Costa d’azzurro (così la chiama), si cela un conflitto delle forze naturali risolto nella sorprendente luminosità, chiarità, del luogo dentro cui si agitano silhouettes umane e fanno da sipario alberi e rami che, ancorché evochino le frequentazioni con i pittori moderni del suo tempo (da Cezanne a Matisse e Dufy, come opportunamente ricorda nel catalogo Electa Daniela Simoni, che gestisce il centro liciniano), a me ricordano piuttosto quella “calma e semplicità” che agiscono sotterranee nella pittura orientale, in particolare giapponese, mondo che Licini certamente conosceva grazie ai suoi ripetuti soggiorni parigini.
L’acqua e la terra, l’aria... e il quarto elemento, il fuoco? Prendiamo il ciclo dell’Amalassunta, ovvero della Luna e delle sue luci saturnine. Per Licini la Luna è lontanissima, ad esempio, dalla sua trasfigurazione asiatica in Khali, la dea che di Selene ha, appunto, l’esasperazione dei caratteri negativi: bevitrice di sangue, divoratrice di cuori e di carne, preferibilmente di morti giovani. La dea dei serpenti che dal teschio attinge il sangue ancora caldo del sacrificato, era l’immagine cruenta e feroce di una religione avvezza all’olocausto umano. Quella di Licini è fonte primaria di eros. La sua maschera forse è quella arcaica dei micenei, ma trasfigura un sogno che è quello della Tellus Mater, o – direbbero i tedeschi dell’Urmütter –, la madre primordiale, la dea del mattino e della sera, che certo aveva captato i pensieri di Licini attraverso la frequentazione di Ciliberti; però non si deve fare l’errore di credere che la “regione della Madri” entrasse nella sua poetica solo allora.
La mostra dedica ampio spazio ai dipinti degli anni Venti. Sono paesaggi, alcuni di straordinaria sprezzatura pittorica (talvolta sembra già informale) – come quello del 1926, sfuggito al catalogo generale pubblicato nel 1968 da Giuseppe Marchiori, che aveva incontrato Licini per lettera nel 1932 e poi di persona due anni dopo; ma anche altre tele del 1925, che seguono già la strada “ribelle” che connota la libertà selvatica di Licini in quegli anni e la sua autonomia dagli astri francesi –; ecco, confesso che questi paesaggi m’intrigano molto di più dei dipinti geometrico-astratti degli anni Trenta. Anzi, dirò che questo periodo – che lo vede esporre insieme al gruppo di Soldati, Radice, Sartoris, Reggiani, Ghiringhelli, e meditare sul “manifesto” astratto di Carlo Belli, dal titolo tuttora emblematico: Kn –, mi pare a posteriori un passo necessario per uscire dalle strade del “postimpressionismo” e dell’“espressionismo” (soprattutto nel colore), vale a dire, un viatico o un vero “rito di passaggio”, verso una pittura “fantastica” che non è realismo magico, non è surrealismo, ma è piuttosto il salto fondativo che mette in comunicazione la terra e il cielo, sorta di anabasi pittorica che traduce una intensità interiore maturata dalla consapevolezza dell’importanza estetica di ciò che Bergson chiamò élan vital.
La libertà e l’imprevedibilità dell’esserci, che in fondo scioglie il Dasein heideggeriano da quella zavorra mortifera da cui l’esistenzialismo non riuscì mai a liberarsi. Forse, l’unico che si avvicina a questo scarto metafisico e profetico, che segna la pittura di Licini dopo la guerra, è il “pensiero meridiano” di Camus, che non è antitragico ma contempla la possibilità di dare alla tragedia un oltre, un finale aperto. Si diceva del fuoco. Ecco, il fuoco, nella fucina del pittore, partorisce angeli che sono leggeri e possenti come il miceneo Principe dei Gigli, dipinto che secondo alcuni studiosi ritrae un pugile; sembrerebbe, caso mai, un peso piuma: spalle larghe, pettorali sviluppati, dunque forza fisica ma con un torace che finisce su una vita stretta come quella di un’ape. Così l’Angelo ribelle di Licini, ma ancora bello come quelli del paradiso; lo sguardo arcano e ipnotico fa pensare all’Apollo di Veio, e – come una delle opere di più ampie dimensioni – con un cuore rosso i cui contorni assomigliano a quelli che gli innamorati disegnano sui muri delle città.
C’è un segreto, come notava Lionello Venturi, nella pittura di Licini; o meglio, molti segreti, misteri, quelli del mito ctonio da cui in qualche modo veniamo. Ma senza esoterismi intellettuali, piuttosto con l’intuizione di quanto la vita sia simile alla natura, bellissima ma anche ingannevole. E si tratta di metterne a nudo la potenza e le insidie. Come scrisse Péguy nel suo poema sui Santi Innocenti: «Ognuno di noi è strappato alla terra, al suo giorno, alla sua ora. / Ma ognuno di noi è strappato alla terra troppo tardi, quando già la terra ha fatto presa. / Ognuno di noi è strappato alla terra quando è già terroso. / Quando la sua memoria è terrosa e la sua anima è terrosa». Ecco: terroso. Può essere il corpo come carcere e prigione, del Pascal più giansenista, oppure l’immagine del soffio divino nel bamboccio di creta, che dà vita a ciò che era inerte e nel “tutto” si confondeva. Licini è “terroso” e “selvatico”, sublime e mediterraneo come spesso la pittura del Novecento ha dimenticato di essere.