giovedì 20 giugno 2013
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«Questa terra diventerà bellissima». Così disse Paolo Borsellino a Rosaria Schifani, moglie di uno degli agenti uccisi con Falcone a Capaci. Aveva ragione il magistrato. La Sicilia, e non solo quella terra, sta diventando bellissima, grazie a chi ha resistito dando speranza. «C’è chi dice no», no alle mafie e a chi le tollera o ci fa affari. Li racconta la terza edizione di "Trame" il Festival dei libri sulle mafie, fino al 23 giugno a Lamezia Terme. «Storie che meritano attenzione – spiega il direttore artistico Gaetano Savatteri –. Segnali di cambiamento. Purtroppo ci accorgiamo di quello che accade in queste terre solo nei momenti bui, ma quello che è positivo ha poca visibilità. E questo è la cosa peggiore». Quello che parte da Lamezia è, dunque, «un messaggio di speranza. Soprattutto verso i ragazzi che non sono predestinati a vivere in un ambiente mafioso». Speranza e buone notizie, come quelle che racconta Raffaele Sardo, collaboratore di Repubblica, volontario di "Libera" e del "Comitato don Peppe Diana". Con la telecamerina documenta la sua terra. Terra di Gomorra per i più, terra di don Peppe Diana per lui e tanti altri. «La nostra realtà è questa. Io la racconto restando qui. È qui il fronte, la lotta». Rappresentata dalle vittime innocenti della camorra che Raffaele ricorda nel libro Come nuvole nere. Vittime innocenti (Melampo editore) che sarà presentato il 23 giugno. «Stare al fianco di chi "ha detto no" e ha pagato – spiega –. Ma dietro a quei nomi ci sono persone, spesso poco conosciute. È importante raccontare la storia dalla parte delle vittime, mentre la facciamo quasi sempre dalla parte dei carnefici». Critica e autocritica. «C’è una grande responsabilità di noi giornalisti. Parliamo dei boss come di Primule rosse, di Robin Hood. Creiamo dei falsi miti. Sono solo delinquenti». Invece «le vittime e i loro familiari sono il vero paragone. Persone semplici che spesso volevano solo fare bene il loro lavoro. Ma proprio questo intralcia i camorristi». Ma raccontare è molto di più. «In questa terra siamo tutti portatori sani di camorra. Serve un’operazione culturale». Un lavoro lungo. «Ci vogliono tanti piccoli mattoni. Le vittime sono quelli più forti. Hanno fatto la resistenza, sono la Spoon River della camorra». Storie di camorra e storie di "cosa nostra". Renzo Caponetto, imprenditore e presidente dell’associazione antiracket di Gela. Dal 2005 sotto scorta, 17 telecamere controllano la casa. Minacce, attentati, «mi hanno rotto una costola e provato a spararmi». Ieri a Lamezia per la presentazione del libro Baby killer. Storia dei ragazzi d’onore di Gela (Marsilio editore). «In famiglia vivevamo nella legalità. Papà mi ha sempre indicato la strada giusta: "Non dargli neanche un centesimo altrimenti non te li stacchi di dosso"». Scelte profonde. «È una questione di coscienza. È in gioco la mia libertà di persona e di imprenditore». Ma anche scelta di servizio. «Ho deciso di mettere insieme gli imprenditori perché quando uno è solo è più debole. Dal 2005 sono così riuscito a portarne 135 a denunciare, con centinaia di arresti. Mi chiedevano: "Che garanzie ci dai?". "Di esserti vicino". Così ogni giorno li vado a trovare. È andata bene. E non abbiamo avuto nessuna ritorsione». Così malgrado ripeta sempre «passerò tutta la vita coi miei "angeli custodi"», non molla: «Ho fatto bene. Non mi è mai passato per la testa di abbandonare. La forza me l’ha data anche la presenza dello Stato». Così va nelle scuole a parlare di legalità. E i bambini quando crescono lo affiancano nella sensibilizzazione. «Voglio far capire che questa città ha sofferto tanto ma è cambiata». Vita blindata anche per Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, a Lamezia il 22 giugno per la presentazione del libro L’Italia quaggiù. Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la ’ndrangheta (Laterza editore). Lei, con la Lanzetta, sindaco di Monasterace e Carolina Girasole, ex sindaco di Isola di Capo Rizzuto, è una di queste donne. «Mi sento come una che ha detto prima di tutto un sì, a fare il sindaco come dovere civile. Continuo a dire questo sì, perché non mollo, ma questo comporta dire tanti no, a pressioni e compromessi». Certo «la scorta ha cambiato la mia vita, il mio spazio libero. Ho rimorso soprattutto per i miei figli. Ma non sono pentita. È un’esperienza che mi sta arricchendo. Certo ho momenti di debolezza, ma non voglio fare la vittima, è una scelta da portare fino in fondo: essere amministratrice per la mia terra». Le dicevano che avrebbe mollato dopo 6 mesi. «Puntavano sulla presunta debolezza femminile. Ma dopo 2 anni e mezzo sono ancora qui». Malgrado minacce a ripetizione. «Ma io la ’ndrangheta la sento di più quando si tende a minimizzare, a delegittimare. Ma vedo anche tanta gente che mi sostiene. Lo capisci dagli sguardi, lo vedi negli occhi il bene e il male». Purtroppo «abbiamo un vuoto informativo. Si parla solo delle negatività. Certo la ’ndrangheta esiste, ha distrutto la nostra economia, ma non tutto è ’ndrangheta. Ci sono tanti che dicono quei sì e quei no».
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