giovedì 2 settembre 2010
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Le immagini vere ci colpiscono lasciandoci dapprima senza parole, come aspirando immediatamente la nostra capacità di linguaggio. Ma questo solo per obbligarci subito dopo a rinnovare il linguaggio e il pensiero, proprio per poter reagire all’immagine». A sostenerlo è lo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi-Huberman che proporrà sabato prossimo, al Festival della mente di Sarzana, una riflessione intitolata I mostri dell’immaginazione. L’etica della produzione e fruizione di immagini pare il filo conduttore dei lavori più recenti dello studioso, molto legato all’Italia dove ha soggiornato per anni.In che senso, si può parlare oggi di un valore civile, etico delle immagini?«A diffondersi è un crescente valore non civile o incivile delle immagini, strettamente pubblicitario e propagandistico. Proprio per questo, mi pare sia giunto il momento per tentare di riaffermare il valore civile delle immagini. Quest’aggettivo, "civile", fa pensare a Leon Battista Alberti, all’epoca dell’Umanesimo. Ma per restare alla cultura italiana, anche Alberto Moravia invocò questo concetto al momento della morte di Pier Paolo Pasolini. Dinanzi all’eccesso di immagini e all’appropriazione indebita del termine "immagine" da parte dei politici, cioè come sinonimo di consenso, c’è chi è oggi tentato da un rifiuto di ogni immagine. Personalmente, considero invece l’immagine come una formazione antropologica troppo ancestrale e radicata per essere rifiutata. Occorre interrogarsi di continuo sugli usi possibili delle immagini, ricordando pure che il senso originario del termine imago, ai tempi della Repubblica romana, nel I secolo avanti Cristo, supponeva la dignità della persona, attraverso i ritratti in rilievo o dipinti degli avi di un lignaggio associati ai loro titoli onorifici».Quale apporto originale ha offerto il cristianesimo alla dimensione civile delle immagini?«Come vede, rido. È una questione immensa, impossibile da riassumere. Evidentemente, il cristianesimo ha offerto soluzioni assolutamente originali, fin dall’inizio. Dirò solo che la parola centrale è per me "incarnazione". Essa definisce un nuovo statuto dell’immagine. Ma anche a proposito delle immagini religiose, come per ogni altra, preferisco oggi riflettere sul loro valore d’uso, per così dire. Un valore che può servire, secondo le epoche e nei casi estremi, le cause più nobili come le più abiette. È come per il linguaggio. Le stesse parole non si equivalgono sulla bocca di Dante e su quella di Mussolini». Ultimamente, lei ha perorato spesso la causa delle "immagini dialettiche". Di che si tratta?«Mi riferisco alle immagini che paiono contenere ed esprimere un dialogo o un dibattito fra una tesi e un’antitesi, fra tempi ed epoche diverse. In altri termini, a quelle immagini che non sono per nulla separate dal linguaggio. In Guernica di Picasso, riconosciamo un bombardamento moderno, ma in ciò che la raffigurazione contiene ritroviamo fra l’altro pure i cavalli della Grecia antica. Si tratta di un’immagine che vive, vibra, che non è separata né dal nostro pensiero né dal nostro linguaggio, che non è un puro oggetto di contemplazione».Ciò significa che, al contrario, tante altre immagini e rappresentazioni non interrogano l’osservatore?«Direi che ci sono immagini più povere di altre. In proposito, certo, è sempre possibile affiancare delle immagini povere e ricostruire in tal modo un insieme dialettico. Ma ciò costa spesso un grande sforzo. Ciò che mi pare incivile in molte immagini di oggi, ad esempio di tipo pubblicitario o propagandistico, è il rapporto immediato, non pensato, che istituiscono con il linguaggio. Un rapporto che può anche somigliare al riflesso condizionato pavloviano. Sono immagini che richiamano immediatamente stereotipi linguistici o di pensiero. Le immagini e il linguaggio risultano così entrambi impoveriti».Nel suo ultimo saggio in uscita in Francia, lei analizza le immagini terribili della Shoah: fotografie, sequenze documentarie, film. Di fronte all’orrore indicibile, è possibile parlare di immagini dal carattere esemplare?«Queste immagini ci ammutoliscono e producono in noi un silenzio fondamentale, assolutamente legittimo. Ma al contempo, l’indicibile è ciò a cui dobbiamo confrontarci in modo permanente. Se queste immagini ci ammutolissero per sempre, ciò sarebbe catastrofico. Il linguaggio deve continuamente sforzarsi di avanzare davanti a questa sensazione d’indicibile. In effetti, è proprio per il loro carattere estremo che queste immagini mi paiono esemplari. Da una parte, sono d’accordo con chi giudica la Shoah come un evento senza paragoni possibili. Ma proprio in virtù di quest’incomparabilità, ogni somiglianza anche minima con la Shoah diventa insopportabile. Potrà sembrare paradossale, ma è come se l’incomparabile ci chiedesse di continuo di confrontare, di mettere in relazione». Lei parlerà a Sarzana dei mostri evocati da Goya. I mostri restano dunque d’attualità?«Mi paiono perfettamente attuali perché ci parlano del rapporto fra immaginazione e ragione. In genere, si dice che la ragione conduce alla saggezza e l’immaginazione alla follia. Ma non è sempre così, come ci insegna la storia. Ci sono mostri anche nella ragione. In modo geniale, Goya si rifiuta di cancellarli e forse anche oggi occorre imparare a confrontarsi con essi».
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