venerdì 23 agosto 2013
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Quando l’hanno perseguitata, Claire Ly non era cristiana. «Lo sono diventata più tardi, in Francia, grazie alla disattenzione del parroco che mi ospitava – racconta –. Sapeva che amavo leggere e mi portava a casa le rese della buona stampa. Ma siccome ero buddhista, escludeva il materiale troppo religioso, per non turbare la mia sensibilità. Un giorno mi lasciò il pacco di giornali senza prima selezionarlo e mi imbattei nella Dives in misericordia di Giovanni Paolo II. Da lì mi venne la curiosità di conoscere il Vangelo. Il parroco me lo procurò, suggerendomi anche una lunga serie di letture preparatorie. Non se ne è mai accorto, ma la preparazione l’ho saltata e sono passata direttamente al Vangelo».Il pubblico del Meeting si concede una breve risata, la prima da quando Claire ha iniziato a parlare. La sua testimonianza, inserita nella serie Cosa ridesta l’umano, rimanda a uno dei momenti più bui del XX secolo, il giro d’anni fra il 1975 e il 1979, durante i quali in Cambogia i Khmer rossi misero in atto il loro piano per «estirpare l’umanità», come ricorda all’inizio dell’incontro il direttore di Tracce, Davide Perillo.L’Onu ha individuato 189 prigioni del regime di Pol Pot, 380 "ossari" (luoghi per le esecuzioni di massa) e 19.403 fosse comuni. Prima dello sterminio la popolazione del Paese sfiorava gli otto milioni di persone, due dei quali sono morti nel processo di "purificazione" del governo comunista. Tra le vittime ci furono anche il padre di Claire, il marito e i due fratelli. La donna, incinta, fu invece mandata ai lavori forzati. La laurea in filosofia la qualificava come intellettuale, ma non era esclusa l’eventualità che la si potesse "rieducare".«La pratica buddhista mi suggeriva di trovare un "oggetto mentale" su cui far confluire la mia rabbia e la mia paura – ricorda –. Scelsi il Dio degli occidentali, che non conoscevo. E poco a poco, senza volerlo, imparai ad ascoltare il silenzio abitato dalla sua presenza misteriosa». Battezzata nel 1983, a 37 anni, Claire Ly insegna oggi nell’Istituto di scienze religiose di Marsiglia ed è molto conosciuta anche in Italia per i libri ai quali ha affidato la sua esperienza. Il più recente, La mangrovia (Pimedit), si ispira alla foresta litoranea tipica del paesaggio orientale. «Un luogo di frontiera, nel quale l’acqua dolce si mescola a quella di mare – spiega –. Proprio come noi immigrati, che viviamo sospesi fra due mondi e non possiamo fare a meno di costruire ponti, legami e dialogo». L’immagine con cui si congeda dal Meeting va in questa direzione: un fiore cresciuto nella palude dove fu sterminata la sua famiglia si affianca al Crocifisso della sua città natale, Battambang. «Vedete, abbiamo messo i pantaloni a Gesù, perché noi asiatici non siamo a nostro agio con la nudità – dice –. Ma le ferite che Nostro Signore porta sul corpo sono le stesse che i Khmer rossi hanno inflitto alla Cambogia».
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