martedì 10 maggio 2016
 Le cover del compianto Jeff Buckley e il culto industriale del caro estinto
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Una delle leggende più bizzarre che hanno ammantano il mondo del rock negli anni Settanta è stata quella secondo cui Elvis Presley, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Brian Jones, non erano morti, ma vivevano tutti assieme nei sotterranei di Graceland, la celebre villa del Re del Rock a Memphis. Una Spoon River al contrario, che invece di inerpicarsi sulla collina vagheggiata da Lee Masters sprofondava i suoi abitanti nelle viscere della terra. Effettivamente quelli di Elvis, di Janis ecc. sono tutt’altro che nomi incisi su lapidi spazzate dal vento, perché hanno pubblicato e venduto molti più dischi da defunti (o presunti tali) che da vivi. Questo grazie ad un’industria della musica in crisi disposta a mettere mano agli archivi per pubblicare qualsiasi cosa - incurante del fatto che gran parte di quelle registrazioni siano rimaste nel cassetto perché giudicate insoddisfacenti dagli autori - trasformando il culto del caro estinto in un fenomeno da hit-parade. Tre gli album incisi in vita da Hendrix (quattro con il live Band of gypsies), quarantadue i postumi; trenta quelli di Presley, ma centoundici le compilation e i box sets dati alle stampe dopo la sua scomparsa (quindi con una media di tre all’anno). Fra i più bersagliati ci sono pure Michael Jackson, Freddie Mercury, Nirvana, Johnny Cash, oltre a Bob Marley, Marvin Gaye e Frank Zappa. La speranza è che almeno gli eredi di David Bowie decidano di evitare una simile inflazione di pubblicazioni “in memoriam”. «Non rapineremo i fans con dischi postumi» assicura il padre di Amy Whinehouse, evidentemente soddisfatto di averne dati alle stampe solo due. «Mia figlia avrà registrato u- na quindicina di versioni di “Back to black” che resteranno nel cassetto, perché diffonderle non sarebbe corretto». Di diverso avviso la madre di un’altra illustre anima bella entrata nel culto prematuramente quale Jeff Buckley. Pure lui ghermito anzitempo dal destino come il padre Tim, anche se poi gratificato dalle hit-parade molto più del genitore. Scivolato nelle acque del Wolf River, a Memphis, una sera di maggio del ’97, Buckley junior avrebbe compiuto cinquant’anni il prossimo autunno. Un solo album registrato in vita, dieci o giù di lì quelli autorizzati dalla madre Mary Guibert. L’ultimo You & I è una raccolta di cover risalenti al periodo in cui Jeff si guadagnava da vivere cantando nei club della Lower East Side di Manhattan spaziando dal Dylan di Just like a woman agli Zeppelin di Night flight. «Le registrazioni che abbiamo sono le vere reliquie di mio figlio e dobbiamo trattarle come tratteremmo il suo corpo per la sepoltura, no make up, no abito di Armani, lasciargli lo smalto verde sull’unghia dell’alluce, e non tagliare o pettinare i capelli» dice la signora Guibert.«Con gli album pubblicati finora penso di aver creato un museo musicale dell’arte di Jeff, in cui ciascuno può trovare quel che più lo attira di più». Ogni elemento di questo pantheon musicale ha infatti una sua caratteristica capace di renderlo appetito dai fans. «Ciascuna canzone, anche se in forma incompleta, si porta dentro qualcosa di speciale. E sul tavolo non abbiamo ancora messo tutto. You & I, ad esempio, documenta ciò che Jeff stava producendo quando firmò il contratto discografico con il gruppo Sony; passò in studio tre giorni intensi registrando d’istinto numerose tracce che sfortunatamente non trovarono sviluppo in un album perché la Columbia per lui aveva piani diversi ». Certamente oggi il mercato pretende molto dalla memoria delle superstar che ci hanno lasciato, come dimostrano i due album postumi di Michael Jackson già pubblicati e gli altri otto che la Sony, in virtù del mega contratto da 250 milioni di dollari firmato con gli eredi, spera di attingere dai 170 nastri del Re del Pop ancora in cassaforte. «Personalmente, ho sempre fatto distinzione tra arte e commercio, ma quando Jeff accettò il contratto del gruppo Sony sapeva che l’obiettivo dell’azienda era quella di vendere dischi» ammette Mary Guibert. «Dopo la sua scomparsa, io ho solo cercato di agevolare il lavoro dei nostri partner autorizzando pubblicazioni postume di progetti che pensavo la gente avrebbe amato, perché questo è l’unico modo che c’è per continuare a mantenere vivo il legame».
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