mercoledì 20 maggio 2009
A cent’anni dalla nascita, il ricordo di un uomo «spirituale» ma tanto pratico da reggere la Cattolica in anni bui
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Si prova sempre una certa emo­zione quando si incontra una persona importante, di cui per anni si è letto sui quotidiani, una per­sona vista e rivista in tv, di cui si co­noscono le opere, una persona che si ammira e che, appunto, si vorreb­be incontrare un giorno. E questo incontro alla fine anche per me fu possibile e fu l’occasione gra­dita e preziosa per vedere innanzi­tutto in faccia l’uomo — occhi chia­ri, penetranti, sereni — e quindi sco­prirne l’indole, lo spirito, le aspira­zioni di cristiano impegnato. Era Giuseppe Lazzati, allora rettore del­l’Università Cattolica. L’incontro av­venne durante una cena, in casa di un mio amico scrittore, scomparso nel 1999, Luigi Santucci, al quale spesso ho riconosciuto questo me­rito. L’argomento della nostra con­versazione era a prima vista sempli­cissimo, ma per il mio interlocutore molto appassionato e tormentato: la Chiesa. Giuseppe Lazzati amava la Chiesa, di un amore — per dirla con Baudelaire — autentico e lacerante. Quel giorno, vicino a lui, compresi che questo suo amore era dramma­tico nel senso più elevato del termi­ne, ma anche nel senso quasi di feri­ta e tensione che il termine stesso contiene in sé. Rivelava l’«incisione» che ti lascia nella vita l’amore quan­do diventa esigente; amore che può addirittura artigliarti la coscienza. In Lazzati io riuscii a scorgere quella che gli antichi greci definivano orghé, os­sia «ira», «passione impellente», in­tesa, però, nel suo senso primario co­me stato di necessità a parlare, che nasce da un’emozione interiore e du­ra finché non si coagula nella forza della comunicazione. E l’amore per la Chiesa in Lazzati era proprio una necessità interiore, che si muoveva di continuo nel groviglio del nodo in­teriore della persona, della coscien­za, e poi alla fine riusciva a esplode­re e a diventare comunicazione e, quindi, a entrare nella storia, nell’esistenza, nella società. Allora trovava la quiete por­tando con sé tutte le scaglie di luce e di tenebra che tale amore presenta. Ebbi ancora modo di incon­trare l’allora rettore all’ere­mo di San Salvatore, sopra Erba (Co), dove vidi nel vol­to di Lazzati un altro tratto fondamentale, che possono testimoniare coloro che l’hanno co­nosciuto. Ero lì per un ritiro ai gio­vani di Azione cattolica e la sera Laz­zati aveva partecipato alla messa da me celebrata; l’avevo proprio di fron­te. Mentre celebravo, di lui qualcosa mi catturava e addirittura mi di­straeva: il suo particolare modo di essere in comunione con l’Infinito e con l’Eterno. E provo soddisfazione al pensiero che egli sia ora sulla stra­da della beatificazione, in quanto, a­vendolo conosciuto, posso afferma­re di aver avuto — soprattutto in quel momento liturgico — un’impressio­ne diretta della sua santità. In lui si realizzavano pienamente le parole di sant’Agostino: Nolite quae­rere a Deo nisi Deum («Non chiede­te nulla a Dio se non Dio stesso»). In quegli istanti, vedendolo tutto con­centrato e preso dal divino, Lazzati rappresentava la definizione della preghiera formulata da Kierkegaard, secondo la quale pregare è come re­spirare: «È sciocco cercare un per­ché. Perché respiro? Perché altri­menti morirei. Lo stesso discorso va­le per la preghiera». E in Lazzati la preghiera era respiro, un respiro spontaneo. E qui vorrei mettere in particolare risalto quest’aspetto, che rientra nell’area interiore, mistica dell’uomo, uno di quegli aspetti che spesso si preferisce trascurare par­lando di persone illustri di cui amia­mo soprattutto sottolineare, se non solo ricordare, l’attività pubblica. Un altro tratto caratteristico, il più personale e il più diretto, ebbi la ven­tura di coglierlo poco tempo prima della sua morte. Era il febbraio 1986 e ci eravamo trovati insieme a una tavola rotonda televisiva. Alla fine lo accompagnai a casa e lì rimanem­mo a parlare fino a tarda notte. Il di­scorso cadde su La Pira, sul loro so­dalizio, sulla loro visione utopica. «È l’utopia che salva, non l’ordinaria amministrazione! – esclamava Laz­zati –. L’unica visione veramente fe­conda». Ciò che notai in particolare fu la sua fiducia e speranza nel dia­logo, nel dialogo con le culture e con gli orizzonti diversi. Era un tema tan­to caro a quel grande cristiano laico. In quell’occasione gli citai alcune battute di un testo orientale che, se­condo me, rappresentava bene il cammino del dialogo. Lazzati ne ri­mase conquistato. Un uomo, nel deserto di Giuda, se ne va per una valle pietrosa, ed ecco vede in lontananza un essere che si arrampica su una montagna, forse un animale. L’uomo, dato il posto in cui si trova, pensa subito a qualcosa di pericoloso. Tuttavia, avanza per riuscire a individuarlo meglio. In­tanto si accorge che anche l’altro si è avvicinato un poco e così scopre che non si tratta di un animale, ben­sì di un uomo. Allora il cuore co­mincia ad allargarsi, anche se rima­ne un certo sospetto, perché questo è il deserto: un luogo di rischi e di in­sidie. Alla fine i due si incontrano e si guardano e scoprono di essere fra­telli, da tempo separati e lontani. Un’ultima e conclusiva considera­zione. Soprattutto alla luce del Vati­cano II — si ricordi il decreto sull’a­postolato dei laici ( Apostolicam ac­tuositatem — oggi si parla tanto di presenza, contributo, azione dei lai­ci nella Chiesa. Non si può, allora, tacere l’apporto fondamentale di Lazzati nel laicato cattolico italiano. Egli resta un esempio di cristiano che, in tempi difficili — in particola­re negli «anni di piombo» —, ha do­nato e messo in causa la sua vita per la Chiesa, in un servizio generoso, ma al tempo stesso umile, senza en­fasi di circostanza, in un lento, quo­tidiano travaglio, all’ascolto di ogni voce e nell’accoglienza di ogni i­stanza, anche diversa e problemati­ca, per sottoporla a un dialogo. Sono trascorsi vent’anni dalla pro­mulgazione, da parte di Giovanni Paolo II, dell’esortazione apostolica Christifideles laici, sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo.Ripercorrendo questo testo per giungere poi all’appello finale dove si rinnova l’invito del «padrone di casa» di cui parla il Vangelo: «An­date anche voi nella mia vigna», un invito rivolto a tutti i laici, uomini e donne, si deve ben dire che Giusep­pe Lazzati ha veramente incarnato il modello di laico che la Chiesa, nel suo magistero, propone e ripropone perché si mantenga sempre viva quella coscienza ecclesiale, la co­scienza cioè di essere membri della Chiesa di Cristo con dignità, nella partecipazione alla vita della Chiesa in piena corresponsabilità. Pertanto, è giusto e doveroso collo­care la figura di Lazzati tra i grandi laici impegnati del Novecento. Ma direi non tanto per cercarvi un «mae­stro » (titolo che egli avrebbe certa­mente respinto), quanto un «testi­mone ». Una testimonianza che po­teva essere definita — per usare le parole di un grande amico di Lazza­ti, Paolo VI, nell’esortazione aposto­lica Evangelii nuntiandi — come «il primo mezzo di evangelizzazione», poiché «l’uomo contemporaneo a­scolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». Questa fu la testimonianza di Lazzati, uomo immerso nel mondo e totalmente presente nell’impegno secolare, sen­za mai rinunciare a una profonda vi­ta interiore: continuo contatto col mondo, con l’uomo, con la terra nel­l’azione, ma, nello stesso tempo, continuo contatto con Dio nella pre­ghiera, nella vita sacramentale e li­turgica e nella contemplazione.
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