domenica 9 novembre 2014
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Estetica delle immagini, denuncia sociale e uno scavare attento dei personaggi e della realtà. Ecco i “pallini” di Alberto Lattuada, regista milanese di cui ricorrono, il 14 novembre, i cento anni dalla nascita. È stato uno degli autori italiani più autorevoli, apprezzato soprattutto per il suo modo di girare esatto, da “ardente pignolo”, come lo definiva il maestro e amico Mario Soldati, nella scelta del cast, dei tempi e dei luoghi di ripresa. Sapeva che lo stile è fatto di sfumature, pazienza, precisione e che fare bene il mestiere del cineasta significa saper soffrire un attimo di più con l’occhio sulla macchina da presa.  Studente al Liceo Berchet, si era laureato in architettura al Politecnico: aveva un senso innato per le prospettive e uno spiccato gusto per l’arte, il che lo portò a dare nei suoi film un eccellente decoro formale unito sempre a una rara capacità di scrittura dei dialoghi e a una intelligente spettacolarità. Fosse vissuto in America, Lattuada avrebbe avuto maggiore successo. Talent scout di rilievo, avrebbe di certo lanciato a Hollywood divi che sarebbero entrati nella storia del cinema. In Italia ha scoperto e valorizzato Carla Del Poggio (poi divenuta sua moglie), Giulietta Masina, Silvana Mangano, Renato Rascel (in una strepitosa lettura de Il cappotto di Gogol), Catherine Spaak, Folco Lulli, Lando Buzzanca e Dalila Di Lazzaro, solo per fare dei nomi. Dopo aver fondato da giovanissimo con Luigi Comencini la Cineteca di Milano e con Ernesto Treccani la rivista Corrente, approdò al cinema, prima come critico e scenografo e in seguito come aiuto regista e sceneggiatore di Soldati il quale vedendolo sul set, all’inizio, “storse la bocca” per poi lasciarsi conquistare dal suo piglio decisionista, dalle doti umane e dalle idee chiare che mostrava sul campo. La sua opera prima fu Giacomo l’idealista, del 1942, dal romanzo di Emilio De Marchi, con Massimo Serato e Marina Berti: «Un film tristemente bello» lo definì la critica di allora. E quella vena di pessimismo che caratterizzò il suo film d’esordio segnò quasi tutta la produzione successiva. Con Zavattini e Monicelli scrisse, nel 1944, un soggetto per il Centro Cattolico Cinematografico che affrontava il problema di coscienza di un giovane gesuita, padre Fabietti, il quale di fronte alle atrocità dei nazisti si ribella e combatte a fianco dei partigiani imbracciando il mitra per poi venire spogliato dell’abito nero dai vertici della Compagnia di Gesù a causa dei suoi atteggiamenti troppo “barricaderi”. Lattuada, principale artefice dello script, si ispirò a don Giuseppe Morosini, pensando a un film che sarebbe stato molto diverso da Roma città aperta, nel quale Rossellini ha raccontato gli ultimi sprazzi della lotta resistenziale nella capitale senza soffermarsi sulla posizione umana, “intima e politica” del sacerdote romano interpretato da Aldo Fabrizi (personaggio che nel capolavoro neorealista risultò infatti un ibrido tra don Morosini e don Pietro Pappagallo).  Angeli neri (il titolo è una chiara allusione ai preti partigiani che proteggevano la popolazione dall’aggressore tedesco) comunque non fu mai realizzato, forse proprio perché film d’azione e intimistico, non in linea, cioè, con quel movimento che avrebbe dovuto aiutare l’Italia a riprendersi, iniettando una buona dose di speranza, dalla batosta della guerra. «L’origine della mia visione della condizione umana è leopardiana » diceva Lattuada. Il suo era un giudizio crudele della vita che troviamo anche nei tre successivi film, scritti tra il ’45 e il ’47, influenzati dal realismo poetico francese e primi “noir all’italiana”: Il Bandito, con Amedeo Nazzari e Anna Magnani, Il delitto di Giovanni Episcopo (da un romanzo di D’Annunzio) con Aldo Fabrizi e, soprattutto, Senza pietà, con Giulietta Masina, Carla Del Poggio e John Kitzmiller. Una “storia di verità”, quest’ultima, che volendo trattare i temi dell’amore, della violenza, dell’ignominia e della discriminazione razziale, si risolve in un melodramma (seppur d’ottimo stampo) senza vie d’uscita e senza possibilità di riscatto per i personaggi. La Civiltà cattolica lo criticò. «La speranza, la salvezza per l’uomo sta nel suo coraggio, nella volontà di affrontare il destino...» fu la replica di Lattuada. Prima di realizzare il film, il regista mandò i suoi co-sceneggiatori, Tullio Pinelli e Federico Fellini, nella zona della Pineta del Tombolo, sulla riviera grossetana, dove sarebbe stato girato, per studiare da vicino prostitute, piccoli gangster e spacciatori che la frequentavano: i due si travestirono da barboni e vi rimasero per qualche settimana. In ogni caso Lattuada fu demolitore di schemi e precursore di generi: nel Mulino del Po del 1949 tenta il primo film storico-letterario del Dopoguerra, in Luci del varietà, dove sperimenta una regia bicefala con Fellini, taglia corto con il neorealismo per gettare le basi della commedia all’italiana, un passaggio sottolineato più tardi ne La spiaggia. Con Gli italiani si voltano anticipa il cinema-verità. E poi denuncia il provincialismo del Nord in Venga a prendere il caffè da noi, da La spartizione di Piero Chiara e la Sicilia malavitosa con Il mafioso  (magnifico e insolito Sordi). Sganciato dal marxismo che dominava il cinema di quegli anni, Lattuada rispondeva a chi lo accusava di non voler cambiare il mondo: «Quando il pubblico applaude un film rivoluzionario io comincio a dubitare che lo sia veramente, soprattutto se comunica un godimento della rivoluzione, più che uno sdegno». Il regista morì a Orvieto il 3 luglio del 2005.
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