martedì 14 dicembre 2010
Diana Bianchedi: «Resta molto da lavorare: il salto di qualità non lo si fa parlando dei campioni trovati positivi ma convincendo i giovani che si può vincere senza barare. È ora che lo si faccia in classe».
- Vincere senza vergogna di Umberto Folena
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Un inizio travagliato, molto lavoro tra i giovani, ma tanta strada ancora da fare perchè, si sa, il doping corre più veloce dell’antidoping. Sono passati dieci anni da quando il 14 dicembre 2010 l’Italia dava alla luce la legge 376/2000, quella sulla «Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping»: Diana Bianchedi, due ori olimpici nel fioretto, una carriera da campionessa anche lontano dalla pedana coronata dalla vicepresidenza del Coni, è sempre stata una nemica giurata del doping e su quella normativa ha incentrato la sua specializzazione da medico dello sport. «Questa legge ci ha portato all’avanguardia nella lotta al doping - spiega l’ex schermitrice, consulente della Wada, già membro della commissione atleti del Coni -, perchè noi e altre poche nazioni abbiamo una legge nazionale: tutti seguiamo il codice mondiale, ma in questo modo si sono potuti colpire non solo gli atleti di alto livello, ma anche quelli amatoriali». Una normativa per molti aspetti «rivoluzionaria» che ha cercato di mettere ordine nel caos della somministrazione di sostanze vietate tra gli sportivi e che ha introdotto il reato penale per chiunque «procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo» di doping. «Il ministro Fazio ha dato dati allarmanti qualche giorno fa - continua Bianchedi - il 15,9% dei ciclisti amatori sono stati trovati positivi. E questo deve far riflettere. Certo all’inizio la legge ha creato un po’ di confusione: il fatto che ci fosse una lista di sostanze diverse da quelle previste dal Codice mondiale ha fatto nascere qualche difficoltà. Ma col tempo le cose sono migliorate».Per l’ex olimpionica, che vanta anche 5 ori mondiali e due europei, la nota di merito di questa legge è stato soprattutto rendere riconoscibili i farmaci dopanti: «La 376 ha imposto l’obbligo del pittogramma, ovvero di mettere la scritta “doping” sui farmaci vietati e questo ha aiutato molto quelli che ci cadevano per ignoranza. Penso a una mamma che dava al figlio uno sciroppo per la tosse senza sapere che era proibito. Il bollino sulle medicine è nato in Italia nel 2005 proprio grazie alla legge 376. E poi sono state fatte tante ricerche dal ministero per l’etica e la prevenzione». Una legge ad ampio raggio che ha avuto il merito di «rivolgersi ai giovani piuttosto che agli atleti professionisti. La 376 si è sempre occupato di parlare ai ragazzi ed entrare nelle scuole». Ma, nonostante un decennio trascorso, molto bisogna ancora fare. «Abbiamo visto quanto è successo in Spagna, con la vicepresidente della Federatletica sospesa perchè coinvolta nel nuovo processo Fuentes: diciamo che siamo sempre molto indietro nella lotta al doping, e il salto di qualità lo si fa non con il gossip che riguarda i campioni trovati positivi, ma quando si parla ai giovani, quando si dice loro che si può vincere senza doparsi, che sono altre le caratteristiche che possono portare alla vittoria. Nelle scuole racconto sempre che se il mio allenatore mi diceva di prendere una sostanza, voleva dire che non credeva molto in me...». Il bilancio della legge, tra alti e bassi, è positivo: «È stata innovativa, ha dato una spinta molto forte, a parte la difficoltà iniziale con la commissione di vigilanza: serve una linea unica, una sola lista e deve essere quella della Wada. La commissione è orientata più nella ricerca perchè legata all’istituto superiore di sanita e potrebbe fare questo, mentre i controlli li fa il Coni, come dimostrano i 10mila test fatti. Credo poi nel lavoro del laboratorio di Roma, che ha standard elevatissimi riconosciuti in tutto il mondo: diversificare a livello regionale i laboratori porterebbe difficoltà. Serve invece una collaborazione forte con i Miur, con ricerche mirate all’interno del piano didattico, insomma la lotta al doping inserita come fosse una materia scolastica». Ma la campionessa della pedana, spesso in tour per l’Italia a parlare con i ragazzi proprio di quanto «il doping sia un insulto alla tua persona» ha la sua campagna personale: «Dico sempre che sono alta 1.57 e se ho vinto due ori olimpici significa che il fisico non è fondamentale». Puntare su altro perchè «non è il doping che fa i campioni».
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