giovedì 19 febbraio 2015
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Si intitola «Seminare futuro: La Chiesa di fronte alla sfida educativa» il volume di monsignor Mariano Crociata, vescovo di Latina-Terracina-Sezze-Priverno, che esce in questi giorni in libreria per i tipi delle Edizioni Dehoniane di Bologna (pagine 296, euro 26), con la prefazione di monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei e vescovo di Cassano all’Jonio. Gli interventi raccolti nel volume, curato da Salvatore Mazza, si propongono di mostrare la stretta implicazione tra educazione cristiana ed educazione tout court, e soprattutto la connessione tra educazione e questione antropologica, assumendo come sfondo gli Orientamenti pastorali decennali dell’episcopato italiano. La riflessione si articola in tre parti. La prima approfondisce i temi connessi all’educazione dal punto di vista sociale, pastorale, familiare e scolastico. La seconda raccoglie alcuni saggi su aspetti specifici come il ruolo della teologia in quanto sapere della fede. L’ultima parte raccoglie in un’intervista l’insieme delle tematiche affrontate. Dal volume anticipiamo un brano della prefazione.C’è una frase, risuonata di recente, che probabilmente tutti ricordiamo: «Per educare un figlio ci vuole un villaggio». È il proverbio africano che papa Francesco ha citato il 10 maggio di quest’anno, rivolgendosi alle decine di migliaia di giovani e di educatori ritrovatisi a piazza San Pietro per quello che è stato il grande giorno, la festa, della scuola. Una frase fulminante che, come spesso accade alle espressioni che nascono nella tradizione popolare, è arrivata dritta alle intelligenze e ai cuori per la sua capacità di fissare in un’istantanea l’essenza profonda di una realtà complessa come è quella dell’educazione. Ma che ha colpito, anche, e direi forse soprattutto, per il suo mettere a nudo nello stesso tempo, in maniera plastica e, in qualche modo, drammatica, il vero punto dolente di oggi, la ragione cioè di una crisi tanto acuta da far apparire lo stesso termine 'emergenza educativa' perfino troppo blando. Perché è vero: sì, «per educare un figlio ci vuole un villaggio», è indispensabile cioè quel sistema, quell’intreccio complesso di relazioni dove tutti, ciascuno per la sua parte, concorre all’educazione dei figli, di ogni figlio, accompagnandone la crescita. Ed è proprio nel crollo di questa capacità di mettersi in relazione gli uni con gli altri, e dunque in questa che si può definire una vera e propria paralisi relazionale, che la crisi affonda le sue radici.  Le cause le conosciamo. Se ne parla quasi ogni giorno - la caduta degli antichi e consolidati automatismi sociali, la deriva che porta a declinare i diritti umani come diritti individuali, la relativizzazione del concetto di verità, la moltiplicazione esponenziale di stimoli esterni, automatici e spersonalizzati, a cui i giovani sono esposti e che sono solo in condizione di subire, senza poter interagire con essi. Ma è una discussione sterile, incapace come appare di riuscire a trovare un minimo comune denominatore attorno al quale imbastire una proposta che sia credibile e, ancor prima, almeno compatibile coi tempi che viviamo. Così che già almeno due generazioni sono cresciute in quel clima che Benedetto XVI, nella sua Lettera alla diocesi di Roma del 21 gennaio 2008, vedeva segnato «da una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso delle verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita». E la generazione che sta crescendo oggi, ossia gli adolescenti di oggi, così radicalmente diversi da quelli che li hanno immediatamente preceduti da essersi guadagnati una categorizzazione a sé, quali 'nativi digitali', ci appare nel suo insieme ancora più inavvicinabile, indecifrabile, impermeabile a stimoli che non siano autogenerati, in uno scambio relazionale che sembra aver perso ogni dimensione verticale per svilupparsi nella sola dimensione orizzontale. (...) Ritorna, allora, l’idea del villaggio evocata da papa Francesco e la sua importanza decisiva nell’impegno educativo, che non potrà dispiegarsi se non, appunto, a partire dal ri-educare, proprio le relazioni. L’esigenza di 'educare le relazioni' nasce infatti dalla consapevolezza di trovarsi in presenza di relazioni malate e perciò stesso negate; ma, nello stesso tempo, essa nasce dalla convinzione che siffatte relazioni non sono l’unica e irreversibile condizione dell’uomo in e di relazione. In altri termini, l’urgenza di 'educare le relazioni' può avvertirla solo chi - in un mondo che presenta condizioni che come abbiamo detto rendono spesso e per diversi motivi falsate le relazioni - è animato da quella che gli Orientamenti pastorali per il decennio in corso, Educare alla vita buona del Vangelo, definiscono 'speranza affidabile '(n. 15). Quella stessa speranza che anima la Chiesa chiamata a porsi «in fecondo rapporto con la cultura e le scienze, suscitando responsabilità e passione e valorizzando tutto ciò che incontra di buono e di vero» (n. 15).  Tale spinta, tuttavia, non può esaurirsi nel tentativo di dar corpo al desiderio del ritornare a, nella falsa nostalgica convinzione che possa bastare ripristinare le condizioni precedenti per rispondere all’emergenza e uscire dalla crisi.  Perché, prima ancora che impossibile, un backup del genere sarebbe profondamente sbagliato. È, al contrario, la voglia di scoprire, di inventare, che deve muoversi, per riuscire a intercettare le domande di senso che i giovani, nonostante tutte le apparenze, continuano a porsi, e a intercettarle però nei modi e nei tempi in cui essi oggi le pongono. Ci vuole passione, per questo, attenzione, tempo, pazienza e dedizione, perché ogni domanda anche inespressa che resti senza risposta contribuisce a rendere il fossato dell’emergenza sempre un po’ di più profondo. I cosiddetti “nativi digitali” ci appaiono ancora più inavvicinabili, indecifrabili, impermeabili a stimoli che non siano autogenerati e sembrano aver perduto ogni dimensione verticale
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