martedì 2 agosto 2011
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Sin dal 2004 si sapeva che il passaggio dalla televisione analogica a quella digitale terrestre avrebbe accresciuto il benessere nazionale nel suo complesso ma, nella transizione, avrebbe lasciato morti e feriti sul campo. E che sarebbero state le aziende più piccole del settore (non solo le stazioni televisive ma anche i fornitori di contenuti) ad avere i danni maggiori. Lo affermava a tutto tondo uno studio commissionato, per conto dell’allora Ministero delle Comunicazioni, dalla Fondazione Ugo Bordoni (Fub). Lo studio venne guidato da me e da Pasquale Lucio Scandizzo (Università di Tor Vergata) e condotto da una squadra di economisti ed ingegneri provenienti sia dalla Fub sia dalle Università. La relazione completa è ovviamente di proprietà della Fub e del dicastero ma un’ampia sintesi del lavoro è stata pubblica col titolo La valutazione della transizione da televisione analogica a digitale terrestre (Dvb-T): lezioni dall’esperienza in un volume a più voci (Valutazione in Azione :lezioni apprese da casi concreti, Milano, F. Angeli 2006). I risultati dello studio hanno, quanto meno, indotto le autorità sia italiane sia europee a posporre la data dello switch-off dal 31 dicembre 2006 (come definita da una legge del 2001) al 31 dicembre 2012 al fine di effettuare approfondimenti e di individuare rimedi per rendere il Dvb-T "sostenibile" per tutti. Per individuare i rimedi è utile riassumere le conclusioni dello studio, che ha comportato due anni di lavoro e pure la costruzione di una matrice aggiornata delle relazioni tecniche e finanziarie nei comparti dell’editoria e dell’alta tecnologia (i dati Istat sono fermi al 1994). In breve, impiegando la tecnica delle «valutazioni contingenti» per stimare costi e benefici alla collettività di un bene o servizio «intangibile» (quali quelli dell’audiovisivo), per il Dvb-T si è stimato un tasso di rendimento interno (Tir) elevato (attorno al 25%) e statisticamente robusto. Ad un primo esame sembrava buono anche il rendimento finanziario all’intera filiera industriale (non erano disponibili dati per singoli comparti): un Tir del 12%. Analisi più accurate mostravano, però, che il risultato era destramente fragile: ad una riduzione del numero di contatti a pagamento (per servizi interattivi) oppure ad un leggero aumento dei costi, i guadagni sarebbero diventati perdite nette per l’intera filiera; se ne deduceva che i rischi sarebbero stati specialmente forti per le aziende più piccoli. La raccomandazione di posporre lo switch-off, accettata, su proposta dell’Italia, anche in sede europea, era accompagnata da alcune proposte specifiche in materia di regolazione (politiche di pricing, nonché altre forme di incentivi e disincentivi), aste delle frequenze seguendo il metodo definito dal Premio Nobel William Vickrey (al fine da massimizzare il gettito per l’erario e minimizzare che venissero implicitamente favoriti i "big"), un programma aggressivo di digitalizzazione della pubblica amministrazione , soprattutto a livello dei Comuni e del servizio sanitario nazionale (Ssn), al fine di potenziare il digitale terrestre con servizi interattivi alle imprese, alle famiglie ed alle imprese (tutte tipologie di servizi che le televisioni piccole e con un chiaro ambito territoriale sono meglio disposte ed attrezzate rispetto alle grandi emittenti). Di queste raccomandazione unicamente quella relativa al posticipo dello switch-off è stata accettata. La regolamentazione è formalmente ineccepibile poiché approvata da tutte le autorità competenti. Nonostante nel novembre 2004, il Congresso dell’Anci a Genova avesse tra i suoi temi portanti la digitalizzazione dei comuni nelle prospettive del Dvb-T, i risultati effettivi sono ben inferiori alle aspettative (e si è perso un bacino d’utenza privilegiato per i "piccoli"). Di aste «alla Vickrey» neanche a parlarne; per l’assegnazione di gran parte delle frequenze si è proceduto con il metodo chiamato nella professione del beauty contest(«concorso di bellezza»), ossia definiti alcuni parametri di qualità del servizio («la bellezza») attribuire le frequenze a chi più ci si avvicinava – una procedura che, in buona o cattiva fede, avrebbe favorito chi è già più grande e più ramificato. Si è lasciato un contentino: per le poche frequenze ancora da attribuire, si preferiscono, entro certo limiti, i «nuovi entranti».  Occorre dire, però, che anche i "piccoli" non si sono difesi beni: in tutto il mondo il Dvb-T comporta un processo darwiniano se non ci si aggrega perché ad una frequenza corrisponde una pluralità di canali (da qui il termine multiplex digitale) che nessuna piccola televisione o nessun piccolo fornitore di contenuti è in grado di fare funzionare. Adesso per rimediare occorre rivedere la regolazione e rimettere sulla via giusta la concessione delle licenze (revocandone se del caso a chi ne ha troppe e non sa neanche utilizzarle saggiamente). I "piccoli" devono creare aggregazioni operative. Perché il progresso tecnologico comporta cambiamenti ma non si può introdurli solo a vantaggio dei più forti e a svantaggio dei più deboli. Soprattutto se questo significa spegnere di fatto delle voci importanti per il Paese.
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