martedì 3 novembre 2009
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Audace, irriverente, scanda­losa Merini, con gli occhi verdi attraversati da un lampo quando si divertiva a met­tere alla prova chi la veniva a o­sannare nella sua casa, sulla Ripa di Porta Ticinese: «Si sieda, si sie­da, non rimanga in piedi», sbuffa­va in una nuvola di fumo, incuran­te del fatto che il malcapitato non sapesse che fare. Di sedie, infatti, a parte la sua, neanche l’ombra, sommerse com’erano da abiti alla rinfusa, piatti semivuoti, mucchi di fogli, chincaglieria di ogni gene­re. Come il tavolo, del resto, e il pianoforte, simili ai bancali di un bazar mediorientale. Sui mobili, distribuite lungo l’ultimo percorso fatto tra la camera da letto e il sa­lottino, si consumavano fumando tutte le sigarette che aveva iniziato e piantato lì, finché non si spegne­vano lasciando un segno bruciac­chiato sul legno, sul lenzuolo, sulla tovaglia... «Si sieda, perché resta in piedi?», ripeteva spazientita e scrutava la reazione. Insofferente degli adulatori, che fino a un certo punto la lusingavano, poi finivano sempre per suscitare un certo di­sprezzo, Alda Merini amava i sin­ceri e i coraggiosi. Affamata d’af­fetto, accoglieva molti ma sceglie- va pochi, quella cerchia di amici e amiche (rarissime) cui si rivolgeva nei momenti dell’ispirazione, quando la poesia sgorga e va presa al volo, fermata sulla carta: lei non scriveva, dettava, e il prescelto di turno aveva il privilegio di assiste­re alla metamorfosi della poetessa, che cambiava tono ed espressione mentre dalla sua bocca improvvi­samente usciva, senza sforzo alcu­no, la pura poesia. È questa l’espe­rienza che ieri la cerchia ristretta degli amici – riuniti attorno al let­to d’ospedale su cui giaceva ad­dormentata dell’ultimo sonno – si raccontava, la stessa per tutti: l’at­to creativo, l’istante in cui, senza preavviso, l’Alda dei Navigli, quel­la delle barzellette in milanese, di­ventava la Merini autrice ispirata. Allora la sua casa sembrava l’an­tro di una sibilla, lo sguardo si fa­ceva malinconico e vagava lonta­no, la voce rauca si abbassava e di­ventava sussurro. Capivi che era finita quando gli occhi, altrettanto improvvisamente, tornavano a guizzare e lei spalancava un sorri­so grato, ingenuo, di bambina. Perché questo era Alda Merini sot­to la scorza a volte dissacrante e trasgressiva, un’anima pura rima­sta fanciulla. Riconosciuta ormai come una delle voci più autorevoli del Novecento, più volte candidata al Nobel, non è che restasse umile: nemmeno concepiva che il suc­cesso la potesse cambiare. Nel suo bazar di ricordi ed emozioni, pre­mi prestigiosi e lettere di perso­naggi noti avevano la stessa di­gnità della carta del prosciutto ap­pena mangiato e alla fine subiva­no lo stesso trattamento, così co­me le banconote, prima pretese e sudate (spesso lamentava che gli editori la sfruttassero e si facesse­ro ricchi sulla sua pelle), poi im­mancabilmente regalate a qualche figlia, a un nipote. Non c’era nulla di materiale che destasse la sua at­tenzione per più di una giornata, e da casa sua si usciva sempre cari­chi di regali tra i più impensati e ingombranti. Un po’ regina e un po’ mendicante, vestita di stracci e bella di bigiotteria, restava intima­mente signora, fine di una finezza interiore, aristocratica nell’onestà. In questi giorni si farà a gara a ce­lebrarne il genio creativo, ma forse non si dirà abbastanza della sua principale ricchezza, quella bontà innata che ne faceva un’anima candida e nei momenti più impre­visti le stampava sul viso un sorri­so di struggente tenerezza. Quasi si stupiva, Alda Merini, di poter in­cutere timore, lei che non avrebbe fatto male a una mosca, e quando ciò accadeva la divertiva: assi­stemmo di recente a un episodio il giorno in cui l’inviato di una gran­de casa editrice – puntualmente ricevuto nella stanza da letto – a­veva il compito di riferirle la cifra a lei attribuita come compenso per la riedizione di un suo libro di suc­cesso. Alzando la voce, brandì il bastone con il solo intento di al­zarsi, ma questo bastò perché il poveretto se la desse a gambe, e la Merini si abbandonasse a una lun­ga stupefatta risata. L’altra faccia della bontà era infatti l’autoironia, dettata dall’umiltà ma anche da un’intelligenza acuta, perché lei, la donna che per dodici anni era sta­ta rinchiusa in manicomio, cui a­vevano allontanato le figlie, il cui cervello avevano folgorato con 37 elettrochoc, era dotata di una luci­dissima visione della realtà. Dietro l’apparente follia dei comporta­menti, si leggeva la solidità dei princìpi e non era raro vederle scuotere il capo mentre guardava fuori dalla finestra, oltre la nebbia dei Navigli, fissando con sconcer­to i ritmi frenetici di una Milano incapace ormai di amare: «I pazzi siete voi, quelli chiusi fuori dal manicomio». Contro la Milano che cambia rapidamente ha com­battuto gli ultimi suoi anni, dispe­ratamente ancorata a un mondo destinato a morire, avvinghiata al­la sua casa di ringhiera che amava così, brutta e vecchia come quan­do ci entrò bambina, sfollata dai bombardamenti del centro città. Qualche anno fa gliela restauraro­no e per lei fu tragedia. Chiusa nelle sue stanze, le difese dalla fu­ria iconoclasta e ancora adesso sulle pareti resta scritta un po’ tut­ta la sua vita, i nomi e i numeri di telefono degli amici, le firme, i di­segni: diventerà museo o una ma­no di bianco cancellerà ogni cosa? Avvenire era il suo giornale, da queste pagine sceglieva di pregare quel Padre e soprattutto quella Madre in cui vedeva rispecchiato il suo bisogno di maternità e tra le cui braccia trovava il vero confor­to. Il 30 dicembre del 2006 ci dettò la sua epigrafe e noi, diligenti, ap­puntammo: «Morì credendo di es­sere viva». Parole che forse reste­ranno sulla carta, ma che ieri, guardandola per l’ultima volta in viso, certo apparivano vere.
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