martedì 31 marzo 2009
Una parola il cui vero senso è snaturato: dalla distinzione dei ruoli all’agnosticismo «a priori». Un saggio del vescovo Fisichella.
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L’aggettivo laikós indicava o­riginariamente un membro della Chiesa, che fa parte del laós tou theou, il «popolo di Dio». Ciò è ancora più evidente se si con­sidera la traduzione latina del ter­mine, che non è il generico popu­lus, bensì plebs, che indicava speci­ficamente la comunità cristiana. L’inevitabile evoluzione del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche – particolarmente, in questo caso, le divisioni provocate all’interno della comunità cattolica dalla Riforma protestante nel XVI e XVII secolo –, ma anche e soprattutto dell’oriz­zonte culturale a essa sotteso. Si è così progressivamente giunti a i­dentificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiun­gere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede. In entrambi i casi, l’autentico signi­ficato del termine, per come si è e­voluto nel corso dei millenni, è sta­to snaturato. Se da una parte, infat­ti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettiva­mente alla Chiesa e allo Stato, è in­vece difficilmente condivisibile la te­si secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti. Questa posizione si può riassumere con la massima di Ugo Grozio, fatta propria, quasi fos­se una formula magica, dal movi­mento secolarista, il quale però ne ha corrotto il significato originale: etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse». Analogamente, è as­surdo temere che la verità della fe­de possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la ve­rità, e fa meraviglia che i fautori di ta­li posizioni non ne siano coscienti. Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità» – è bene ribadirlo –, in ambito sia filo­sofico sia politico, è solo perché nel cristianesimo si erano precedente­mente sviluppate le forme concet­tuali ed espressive che ne permise­ro il comune riconoscimento, no­nostante l’uso ambiguo e spesso strumentale a cui il termine è sog­getto. Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezio­ne, non per orgoglio – anche se a­vremmo tutti i diritti per farlo –, ma esclusivamente perché ci venga ri­conosciuto un diritto di originalità che non ci può essere sottratto, se non altro per rispetto della verità storica. Ultimamente, si sente parlare sem­pre più spesso di «etica laica». Cosa si nasconda dietro questa espres­sione è facile immaginarlo, alla luce di quanto abbiamo esposto in pre­cedenza. Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di fa­vorire la scienza e così produrre pro­gresso. Quanto questa visione sia in­genua è evidente. Per sua stessa na­tura l’etica non ha alcuna colora­zione e ogni sua ulteriore qualifica­zione risulta pleonastica. L’etica, in­fatti, riconosce il primato della ra­gione e assieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita personale. Difendere in ambito politico l’esi­stenza di un’etica «laica» indipen­dente dalla «morale cattolica» è giu­sto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano esse­re necessariamente contrapposti. Significherebbe non percepire il nesso costitutivo che intercorre tra etica e morale cattolica e creare ar­tificiosamente, e con intenti stru­mentali, un’inesistente contrappo­sizione. Per quanto possa apparire parados­sale, oggi gli Stati hanno urgente bi­sogno di confrontarsi con la que­stione della verità; devono ricercar­la incessantemente e proporla ai cit­tadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamenta­li della persona, come quelli che ri­guardano la vita e la morte. Dinan­zi a quei problemi etici particolar­mente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e special­mente con quella proposta dalla re­ligione, che più di ogni altra confe­risce valore alla dignità della persona. Il concetto di tolleranza, applicato oggi ai più sva­riati ambiti – si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale –, non è di aiuto per risolvere la si­tuazione conflittuale nella quale ci troviamo. Lo Sta­to non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nes­suno predilige. Deve senz’altro a­doperarsi per riconoscere e difen­dere le minoranze, anche quelle re­ligiose, ma ciò non può andare a de­trimento della maggioranza pre­sente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità. Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fonda­mentale attributo. In virtù del suo essere democratico, lo Stato non so­lo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo mo­mento temperandole – le eventuali ingerenze. Non si tratta di una que­stione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettan­do i rischi di tale condizione. La Chiesa invece, richiamandosi a prin­cipi che hanno un’origine superio­re a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi inge­renza dello Stato riguardo ai propri contenuti. Ciò non rende una supe­riore all’altro, ma semplicemente ri­conosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni. La cosa può apparire paradossale, e lo è. La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera del­la politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite. La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può o­perare. Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta co­munque di uno strumento, non di un fine. Ciò che caratterizza la pre­senza della Chiesa nel­la società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle e­ventualità regolamen­tate dalle leggi emana­te dagli Stati, ma va ol­tre. L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare se­gno della laicità acquisita dallo Sta­to, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza conge­nita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia. I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coe­renti, saranno obbligati, oggi più di ieri, a legittimare la nostra esisten­za all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affer­mare che siamo un’anomalia, una presenza fortuita, accidentale, ad­dirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perché tanto in­gombrante con le sue certezze e i suoi dogmi. La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro prin­cipio di tolleranza – espressione ge­nuina di dogmi laicisti – secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblica­mente su questioni di carattere so­ciale ed etico. Non è lontano da questa stessa ten­tazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Sta­to etico, che legifera non solo pre­scindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’i­spirazione per i propri interventi le­gislativi. L’apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789, uno degli atti fondanti della Rivoluzione francese
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