sabato 20 agosto 2022
"La voce delle ombre" al Mudec di Milano rintraccia la presenza di personaggi di colore nell’arte lombarda fra XVI e XIX secolo. Venticinque opere per indagare pregiudizi e identità negate
Giovanni Carnovali detto il Piccio, “Il Conte Manara con il suo servitore etiope” (1842)

Giovanni Carnovali detto il Piccio, “Il Conte Manara con il suo servitore etiope” (1842)

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Se l’idea di fondo è presentare «il fatto che donne e uomini originari del continente africano vivevano già nei secoli passati nelle regioni italiane», come scrive Luca Tosi per motivare lo sforzo compiuto con la mostra La voce delle ombre, che intende documentare le «Presenze africane nell’arte italiana settentrionale» tra XVI e XIX secolo, si potrebbe pensare che alla fin fine si voglia colmare una deprecabile, ma tutto sommato semplice, ingiustizia verso la memoria storica di cui fanno parte anche i neri che, oggi, sono ben più numerosi sul suolo italiano di quanto non siano stati in quei quattro secoli. Giulia Bonazza nel catalogo edito da Silvana riporta alcune cifre indicative che lungo i quattro secoli presi in esame dalla mostra, di neri ne contano in tutta Europa circa due milioni e mezzo e nella Penisola tra i quaranta e i cinquantamila. Ancora Tosi – che presiede il comitato scientifico della mostra in corso al Mudec (il Museo delle Culture di Milano, fino al 18 settembre), e ne è anche curatore con Carolina Orsini e Sara Rizzo – lamenta la difficoltà che hanno incontrato per reperire opere lombarde con ritratti di africani: persino all’Ospedale Maggiore, la Ca’ Granda, che vanta la maggiore galleria di ritratti milanesi, circa mille, mancano esempi dove un committente figuri affiancato da un servitore nero o simili. D’altra parte, gli studiosi che hanno collaborato con saggi storici a questo catalogo ammettono che il fenomeno schiavistico già nella Lombardia cinquecentesca era sporadico. Ragion per cui, spiega Tosi, le venticinque opere esposte sono state raccolte attingendo anche al patrimonio di altre regioni.

La mostra si conclude con una piccola galleria “contemporanea” di opere dell’artista italiano di origini ghanesi, Theophilus Imani, eseguite tra il 2017 e il 2021: si tratta di dittici che accostano opere contemporanee (a volte sue) e opere antiche esaltandone, per così dire, le analogie. Qui voglio ricordare – fuori da ogni sospetto di falsi retaggi della globalizzazione – che ben prima di Imani, un artista italiano, che vive da mezzo secolo in Brianza, Gaetano Orazio, ha dedicato ormai quindici anni fa un grande ciclo pittorico e grafico al tema della stiva e della tratta dei negrieri, culminante in un dipinto che si distende per circa una dozzina di metri; il ciclo era piaciuto a Philippe Daverio che dedicò a Orazio anche uno spazio nella sua trasmissione televisiva “Passepatout”. Tornando alla mostra, che è una sorta di anticipazione e sollecitazione per studi più approfonditi, nell’Introduzione si ricorda il progetto Black Presence dove la Galleria degli Uffizi promuove analogamente la conoscenza delle immagini africane nei dipinti storici del Museo. E in una nota si ricorda il ruolo svolto da John e Dominique de Menil nella mappatura delle opere che trattano la presenza dei neri nell’arte americana, che hanno portato alla pubblicazione di vari volumi di documentazione (grandi collezionisti e sostenitori dell’arte contemporanea, i De Menil commissionarono a Mark Rothko il ciclo di tele “apocalittiche” per la Cappella di Houston, ma furono anche mecenati di studi fondamentali, per esempio il volume che raccoglie tutti i documenti legati alla nascita della Cappella di Vence di Matisse).

Preferendo la franchezza allo stile “falso e cortese”, di fronte a una storia della schiavitù dove è ben noto e ovvio che la compravendita di esseri umani aveva una ragione economica conseguente al bisogno di manodopera per le coltivazioni della canna da zucchero dal Brasile ai Caraibi, oppure, in Nord America, per quelle di riso e tabacco; ma non era disdegnato l’impiego di schiavi neri nelle miniere, nella realizzazione di lavori pubblici, nell’opera di artigiani e commercianti, oppure ai remi di qualche nave; ecco che l’immagine più odiosa, e la più documentata in definitiva, è per me quella dei servitori domestici. Non che non mi renda conto di come essere al servizio (forzato) di un nobile o di un proprietario terriero costituiva anche una speranza di vita maggiore per molti schiavi (che se si convertivano potevano guadagnare un certo affrancamento, però il commercio su di loro spesso continuava anche dopo); ma l’idea che un nero debba essere proprietà e servitore di un bianco è immagine ben più umiliante, ai miei occhi, che essere trattati come bestie da soma in lavori che spesso finivano con la morte. Questione di dignità: non essere un servo del tuo oppressore. E nella ritrattistica, anche con le migliori intenzioni, si avverte sempre un po’ l’ombra di questo spirito prevaricatore: mostrare il proprio trofeo, il fedele servitore, come proprietà. A Mantova, nel 2008, parlai con Édouard Glissant, il grande scrittore della Martinica, e quando gli feci notare che un certo “revisionismo storico” stava sostenendo che il colonialismo non fu soltanto male, ma fece anche bene, lui mi rispose che «se si dice questo è perché si avverte di dover fare i conti con quella storia. Quando dalla parte lesa si levano voci che chiedono di discuterne, ecco che si ricomincia con l’arroccarsi nella difesa degli aspetti positivi del colonialismo. Certo, vi sono state anche cose positive, ma questo lasciate che lo dica io, che sono un colonizzato, perché se lo dicono i colonizzatori è come alzare un nuovo muro».

Ogni intenzione volta a “decolonizzare” la memoria storica va svolta con molta prudenza, perché il rischio è sempre dietro l’angolo (ne sanno qualcosa i teorici che hanno affrontato la questione post-coloniale, come Gayatri Chakravorty Spivak che con Ranajit Guha ha scritto il saggio Subaltern studies. Modernità e (post)colonialismo). Quasi sempre nelle opere che vediamo il personaggio nero non è immediatamente spiegabile, tranne forse quando figura come servitore o incarna un personaggio mitico, vedi la Sibilla egizia, o si trova dentro una rappresentazione biblica, come l’Adorazione dei Magi (quella del Genovesino) o l’Ecce Homo attribuito alla cerchia di Giovanni da Monte, che, scrive Luca Tosi, sembra evocare il pregiudizio verso gli africani e gli ebrei, che diventano, in quanto carnefici, «cattivi per eccellenza».

Si segue un percorso che sembra addirittura segnare un progresso in quella dignità a lungo negata, come nel Ritratto di moro albino o in quello del Principe Muley-Xeque. Una sorta di ammiccante sottinteso ai legami personali fra il Conte Giuseppe Manara e il suo servitore etiope si intuisce nelle due tele del Piccio (è un’allusione al pregiudizio sulla tendenza lasciva dei neri?). Volendo ricordare la tela del Ceruti nella collezione della Ca’ Granda in deposito a Palazzo Morando – non esposta –, dove Antonio Litta in grande spolvero occupa il primo piano mentre il servo nero, in livrea e turbante, è retrocesso nell’angolo destro, Luca Tosi si chiede se il pittore non «sembri quasi tradire il suo spirito di solidarietà verso i cosiddetti 'pitocchi'», dai quali deriva appunto il soprannome. Il confronto è con lo splendido Ritratto di mendicante (nero) di collezione privata dipinto quarant’anni prima. Ma si potrebbe osservare che la solidarietà di Ceruti non dipendeva dal colore della pelle, bensì quasi soltanto da una condizione sociale che gli era in qualche modo prossima: avvicinandosi la fine il Pitocchetto scrisse infatti che voleva essere «seppellito da povero... sendo io veramente tale».

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