giovedì 13 novembre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
C’è l’Africa dei villaggi, della fame, delle tragiche traversate nel Mediterraneo, dell’Ebola. C’è l’Africa delle città, delle trasformazioni, dello sviluppo possibile. Ci sono due volti sempre contrastati e contrastanti quando si guarda al continente nero. Oggi l’Africa può essere vista sotto il segno del cambiamento e dell’opportunità. E a questo tratto positivo, per niente filosofico, ma molto concreto guarda una mostra sull’architettura e le trasformazioni dell’Africa, alla Triennale di Milano (fino al 28 dicembre): Africa Big Change Big Chance. Il grande cambiamento (Big Change) e la grande possibilità (Big Chance) danno il registro delle opportunità adesso disponibili per un futuro migliore e sostenibile dell’Africa. Un viaggio fra emozionanti fotografie d’autore che aprono la mente alla scoperta, modellini e riproduzioni di ultima generazione realizzati con stampa 3D e poi ancora progetti e schizzi in cui si ha l’impressione, se non la certezza, che l’Africa sarà lo spazio di una nuova modernità, dove erigere una differente cultura cosmopolita e globale. Un campo di lavoro in cui si sono confrontati architetti europei (molti italiani) e “matite” locali. Un percorso che guarda al futuro ma che parte dal passato, dalle “cattedrali nel deserto” di importanti edifici che dal Dopoguerra hanno segnato la differenza fra le istituzioni e il popolo; e dalle Università: la cultura e l’innovazione passano da qui, anche in Africa. Anche architettonicamente: negli anni Sessanta in Madagascar a Tananarive o a Costantine in Algeria e Cape Cost in Ghana. Più di recente in Marocco, nel 2010, con l’Università di Taroundant o la Universidade Agostinho Neto di Luanda, fresca di inaugurazione nell’emergente Angola. E se ci sono esempi di contrasti poco riusciti come il “palazzone” del 1994 della Banca centrale degli Stati dell’Africa dell’Ovest a Bamako in Mali, nel continente non mancano progetti di architettura sostenibile, sociale, “non profit”, come il Centro pediatrico di Port Sudan inaugurato tre anni fa sotto la bandiera di Emergency o la scuola sull’acqua di Lagos, in Nigeria, del 2012, che sembra una vecchia palafitta ed è invece un’opera di architettura moderna perfettamente integrata al territorio e allo stile di vita della città. A macchia di leopardo, casi eclatanti di sviluppo urbano più o meno ordinato, da Lagos a Maputo, da Nairobi al Cairo; accanto a Paesi, come la Namibia, in cui coesistono tutti gli antipodi: le capanne degli Himba attorno alla folkloristica Opuwo; il caos della capitale Windhoek, che spazia dalle baracche al casinò con campo da golf; la 'tedesca' Swakopmund lì dove il deserto e l’Oceano s’incontrano, con i tetti spioventi e le pasticcerie di torta Sacher. Un altro mondo rispetto alle baraccopoli di Kigali in Ruanda o di Olososua in Nigeria, città-discariche dove il 90% della spazzatura non viene raccolto bensì bruciato per le strade o disperso nella regione. Tante Afriche racchiuse dall’Africa. Troppo grande, troppo diversa per storia e caratteristiche naturali per poterla osservare con un pensiero “unico”. Troppo diversi i percorsi fra sterminate lande disabitate, curiosi esempi di architettura “primitiva” e geometrie di città nascenti: i quartieri residenziali di Addis Abeba, in Etiopia o i villaggi moderni per la classe media di Nouackchott nella Mauritania. In cantiere, da una parte all’altra del continente, ci sono poi progetti talmente futuristici che sembra difficile immaginare che possano essere pensate in Africa: Hope City, è una città satellite (sarà pronta nel 2015) a pochi chilometri da Accra, nel Ghana, progettata da un architetto italiano e voluta da una società di comunicazione, dal valore di dieci miliardi di dollari americani: un complesso di 6 torri collegate in grado di ospitare 25mila residenti e 50mila lavoratori; in Ruanda è atteso nel 2020 il Kigali Future, mentre in Congo Dr, la Cité du Fleuve di Kinshasa ricorda molto le città-isole degli emirati arabi. Ma con uno spirito sicuramente diverso. «Perché l’Africa – spiega Alberto Ferlenga, direttore di Triennale Architetture e ordinario di Composizione architettonica e urbana all’Università Iuav di Venezia – non è come la Cina, con metropoli tutte uguali, in cui si copiano acriticamente modelli occidentali. No, l’Africa è un grande laboratorio in cui anche ciò che arriva dall’esterno, una volta assorbito, subisce radicali trasformazioni, diventando africano. Il filtro del clima, delle mille culture, della natura estrema, sottopone ogni fenomeno a una sorta di sortilegio che lo fa diverso; terribile qualche volta, nelle sue conseguenze, ma anche gravido di ricchezze nascoste». E se rimane il problema dello sfruttamento della terra e dei ricchi giacimenti energetici, con interessi esteri più o meno limpidi, ma anche progetti internazionali di portata epocale (come Desertec, rete planetaria di sfruttamento dell’energia solare), il vero cambiamento riguarda i fenomeni di concentrazione urbana. Nel 2030 anche le regioni che oggi hanno il minore tasso di urbanizzazione saranno a maggioranza con una popolazione residente nelle città: la popolazione urbana (748 milioni) supererà la popolazione complessiva dell’Europa (685 milioni). È su questo piano che si gioca la sfida dell’Africa. «L’opportunità è rappresentata allora – aggiunge il curatore della mostra in Triennale, Benno Albrecht, professore associato alla Iuav di Venezia – dai protagonisti dell’architettura in Africa che dal Dopoguerra al modernismo tropicale fino ad oggi stanno cercando di disegnare la città africana. Interpreti di una progettualità impegnata nella proposta di una nuova modernità. Lo sfondo economico e sociale africano è quello di un percorso lungo e sofferto. È un cammino che va dalla Raubwirtschaft, l’economia del saccheggio delle materie prime da parte delle nazioni occidentali, fino al suo opposto, un miraggio non ancora avverato: la ricerca dell’uso responsabile delle risorse regionali e la nascita di un solido pensiero cosmopolita. La traccia di questo percorso, violento ed estremo, fa dell’Africa il caso di studio per eccellenza delle visioni del futuro e della sostenibilità, dell’architettura in senso vasto, in un luogo in cui possono convivere tradizione e innovazione». Un cammino verso il domani che ha il ritmo di una musica coinvolgente, l’Indépendance Cha Cha. «È l’inno d’indipendenza del Congo. È la canzone-simbolo di una rivoluzione. È l’inno della gioia, dell’allegria, di un futuro di libertà». Che vale per tutta l’Africa, che vuole costruire la propria modernità, fra Cha-ngeChance. Nel villaggio globale. 
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: