sabato 7 maggio 2016
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L’importanza dei numeri primi: 13 finali su 14, sette scudetti nelle bacheche di due sorelle che si detestano con amore dai tempi in cui Berta filava. Dal 1993 al 2006, con ampio prologo e struggente, mozartiana coda, la pallacanestro in Italia cominciava per “B”: come Basket e soprattutto come Bologna. La ricerca del tempo perduto, ora che la Virtus è retrocessa in A2 e con essa si perde l’ultima idea di sport che non fosse il solito calcio milionario. Molti piangono, altri ricordano quella volta che, l’altra metà della città, la Fortitudo, fa le pernacchie e se la ride, perché quella cosa di Atene e Sparta che ridono e piangono non la cambia nemmeno l’epoca dei selfie e dei tag. Qual- cuno ha perfino immaginato la statua bronzea di Lucio Dalla come una specie di San Gennaro in lacrime, ma la fantasia e il sentimento hanno solo cercato di rendere più dolce, meno ruvida, l’eclisse di Basket City. Finita da un pezzo, buttata via come tutto quello che è successo un attimo prima del tempo vorticoso che stiamo vivendo, ma timbrata appunto dalla caduta di una squadra che si chiama “Obiettivo Lavoro” e non è difficile immaginare i consigli dei tifosi bianconeri ai giocatori bianconeri che hanno perso (con onore) a Reggio Emilia, decretando una caduta che assomiglia molto più a quella dall’Olimpo, piuttosto che ad un ruzzolare giù dal santuario di San Luca che tutto vede e tutto archivia. Chi racconta l’epopea del basket a Bologna come un’età dell’oro fa storytelling, perché non era tutto oro quel che luccicava. Nel 1995, all’alba della stagione in cui Virtus e Fortitudo a suon di miliardi, campioni e palazzi pieni come scatole di sardine si sono guadagnate la ribalta nazionale dietro solo a sua maestà il pallone, la Dda di Bologna ha firmato un dossier in cui denunciava l’esistenza di seicento clan mafiosi e oltre duemila affiliati nella regione. Non è dato sapere se le istituzioni abbiano raccolto l’invito degli inquirenti a vigilare e provvedere, ma certo lo sport, e la pallacanestro in particolare, è sempre stata un’isola felice. Divenne anzi un territorio fiabesco in cui due presidenti-padroni, Alfredo Cazzola e Giorgio Seragnoli, si sfidarono in un gioco a chi aveva il giocattolo più bello e il castello più grande. Se le diedero metaforicamente, e non solo, di santa ragione. Ci furono epiche partite, tremebonde sfide nelle quali il pur amatissimo Bologna Football Club divenne uno splendido fondale rossoblù. La scena era tutta per i campioni, ragazzoni di due metri e passa che venivano dalla Nba. Quella specie di “Golden age” sfociata in un tracollo finanziario, la Virtus radiata nel 2003 e la Fortitudo addirittura spacchettata in due Fortitudo qualche anno dopo, fu costellata anche da una robusta dose di goliardia alla voce “derby”, perché gli emiliani sono così, lavorano duro ma poi quando c’è da fare ballotta, non si tirano certo indietro. La Virtus che portava in parterre il gotha dell’imprenditoria e delle istituzioni, la Fortitudo che riempiva il suo palazzetto con le famiglie con prole e fazzoletti annodati al collo, hanno poi col tempo perso le proprie impronte e scolorato il proprio karma fino ad assomigliarsi terribilmente, accomunate appunto dal fatto di dominare la scena dei panieri a suon di finali scudetto e di vittoriose campagne in giro per l’Europa. Costavano ben oltre 20 miliardi del vecchio conio, le due cugine, e per darvi un’idea in questo campionato è parso un salasso l’assegno da 650mila euro che non ha comunque salvato la Virtus da un destino sportivo che lascia l’amaro in bocca. Senza lilleri non si lallera, dicono in Toscana, e il probabile futuro in serie A2 (salvo sorprese della Fortitudo nei play-off) di quelle che furono le padrone del basket italiano è un azzardo anche per il più incallito dei sognatori. © RIPRODUZIONE RISERVATA Sono sette gli scudetti nelle bacheche delle due cugine della pallacanestro felsinea, acerrime nemiche sul parquet che ora piangono miseria: resta solo la nobiltà e i miliardi di lire investiti in passato Lo sconforto della Virtus Bologna
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