mercoledì 7 ottobre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Il volto di una ragazzina coronata di spine e sopra la scritta «Si può amare Dio e la musica pop?». Questo lo slogan del poster scelto dal marketing per lanciare anche in Italia Kreuzweg – Le stazioni della fede in uscita il 29 ottobre, film del regista Dietrich Brüggemann, vincitore dell’Orso d’argento a Berlino 2014 come migliore sceneggiatura (firmata dalla sorella Anna) e del Premio della giuria ecumenica. Una pellicola particolare per il taglio registico originale, ma anche per una tematica controversa che potrebbe non essere chiara di primo acchito allo spettatore meno preparato. Perché quando si parla di un film «contro i fondamentalismi» per una pellicola incentrata sulla fede cristiana è opportuno fare alcune distinzioni. Soprattutto quando l’opera è ben girata, con cognizione di causa e con una sequenza di lunghe inquadrature fisse che concentrano l’attenzione sulle inquietudini adolescenziali della tenera Maria, in cui molti di noi possono riconoscere se stessi e i propri figli. L’idea registica è quella di associare le quattordici stazioni della Via Crucis a quelle personali di una quattordicenne che sacrifica la sua vita al Signore, decidendo di ammalarsi e morire affinché questi guarisca il fratellino autistico di quattro anni. Una decisione estrema frutto di una interpretazione travisata degli insegnamenti cristiani, che il film imputa agli adulti, rei di praticare, come ha dichiarato il regista, «un abuso spirituale» sulla ingenua ragazzina. Siamo in un paesino del Sud della Germania, presso una comunità chiusa di cattolici tradizionalisti collegati alla “Fraternità San Paolo”, in cui il regista adombra la “Fraternità San Pio X”, comunità scismatica, che non riconosce la validità del Concilio Vaticano II, fondata dal vescovo Marcel Lefebvre. Comunità verso la quale è in corso un lento e complesso cammino di riavvicinamento per giungere alla piena comunione con la Chiesa cattolica. C’è una forte connotazione personale nel film, poiché la famiglia del regista faceva parte di questa comunità, ma in seguito se ne allontanò. Il regista, che dichiara di non avere nulla contro la Chiesa cattolica o la religione, però segue con convinzione una tesi “allarmistica”.I “colpevoli” del disastro che porta la ragazzina, alla difficile ricerca di una propria identità, verso il dramma sono la rigida madre della piccola, una fanatica religiosa che la colpevolizza, e il prete che prepara alla Cresima la ragazzina. Quando il film si apre con la scritta della prima stazione «La condanna a morte di Gesù» e la si abbina alla lezione di catechismo che il giovane e convincente padre Weber fa a un gruppo di adolescenti viene un brivido. Perché è proprio all’inizio che occorre sgomberare il campo da ogni ambiguità, distinguendo fra tradizione e tradizionalismo. Padre Weber contesta il Concilio Vaticano II, le sue aperture, la Messa nella lingua nazionale e la musica rock come espressione del demonio. Ma parte della dottrina che esprime, come il valore dello spirito di sacrificio, l’invito ai ragazzi a impegnarsi nella vita, a non seguire gli impulsi e a cercare di salvare le anime dei propri compagni, sono tutto sommato condivisibili. Sarebbe un peccato che lo spettatore facesse di tutta l’erba un fascio, confondendo l’ambiente esasperato in cui si muove la storia, con la religione cattolica, tacciandola di “fondamentalismo” tout court, senza riconoscere invece il valore formativo dell’impegno della stragrande maggioranza dei religiosi che si dedicano alla gioventù. A equilibrare in parte i toni c’è la bellissima figura di Bernadette, la ragazza alla pari che vive nella famiglia di Maria, che rappresenta il volto solare del mondo cattolico. La cosa più commovente del film resta però il sincero desiderio di Dio della piccola Maria, l’amore per il prossimo a costo di rinunciare a se stessa. Una “santa bambina” dei nostri giorni, incompresa e incomprensibile, che ha il pregio di farci riflettere.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: