domenica 28 febbraio 2010
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Il vento di discordia contro gli arbitri che spira su tutta Europa, non è arrivato fino all’Africa. Laggiù, il “saggio” arbitro a riposo, il 67enne Luigi Agnolin, imperturbabile, nel frattempo scrutava un’orizzonte assai al di là del colore delle maglie numerate dei calciatori. Anche se gli basta un attimo per ricollegarsi con la nostra triste realtà. «Il calcio italiano - dice - è in crisi, ma è normale, se valori come il rispetto per gli arbitri e per gli avversari sono andati in malora cosa ci si può aspettare? La classe dirigente è la prima responsabile di questo stato di cose, perché in quale altra parte del mondo si cambiano 15 allenatori dopo 25 giornate? Il risultato a tutti i costi che da noi viene inculcato fin da bambini, ha portato alla perdita dello spettacolo e a stadi desolatamente vuoti. Al sabato pomeriggio se uno vuole andare in un posto tranquillo e isolarsi, io consiglio di recarsi nella tribuna di un qualsiasi stadio della nostra serie B...». Sorride Agnolin che preferisce tuffarsi nei ricordi freschi e vitali della “sua Africa”, da dove è appena tornato, “in bici”. Laggiù, per i bambini del Mali e del Senegal, non è il signor Agnolin da Bassano del Grappa, ma semplicemente Gran Papà. I piccoli di quelle terre lontane, l’hanno visto arrivare in sella a una bicicletta, mostrando sotto al caschetto la sua barba bianca da Babbo Natale. Con i calzoncini corti, i calzettoni calati sulle caviglie come Sivori, ha guidato il gruppo nel viaggio-missione organizzato dalla Uisp, da Bamako a Dakar, il primo “Silenzioso Tour della solidarietà”. «Un Tour spirituale personalmente, ancor prima che sportivo, cominciato in Mali, lambendo la Mauritania e approdando infine in Senegal - racconta Agnolin -. Abbiamo percorso 700 km in bicicletta in sei tappe, dal 15 al 21 febbraio. Circa 1500 km, compresi gli spostamenti in autobus da un Paese all’altro, seguiti da un’ammiraglia, un furgoncino e un ambulanza». Una carovana allegra e multirazziale quella partita da Bamako con l’obiettivo di lanciare un messaggio forte: «Lo sport è un diritto di tutti». Messaggio subito recepito dai ciclisti maliani e senegalesi che si sono aggregati alla spedizione italiana, insieme alla quale hanno coperto tutto il tracciato. «Da una quarantina di ciclisti che eravamo alla partenza, siamo arrivati a Dakar in più di cento, con il traffico bloccato dalla folla che è accorsa a salutarci», dice ancora emozionato Agnolin. A ogni tappa, lo scopo principale del Tour-missione, era quello di andare a verificare i progetti delle varie Ong presenti e operative da tempo su quei territori. «Abbiamo toccato con mano il grande lavoro svolto dalle Ong e portato il nostro piccolo aiuto concreto: a cominciare dal Centro contro l’abbandono scolastico di Fatick, è consistito nel fornirgli materiale sportivo, ma soprattutto nel prestare massima attenzione all’ascolto delle problematiche dei tanti giovani che sono la maggioranza delle popolazioni del Mali e del Senegal». Il Gran Papà e i suoi “gregari” hanno tenuto lezioni di educazione sportiva e c’è chi giura di aver visto il signor Agnolin riprendere il fischietto in bocca e arbitrare una gara di ragazzini, nei campetti sterrati in cui sostavano. «È stata una grande esperienza basata sulla condivisione. Un viaggio sfidando il vento, le strade accidentate, il caldo asfissiante, le forature dei copertoni, ma con la consapevolezza di un traguardo profondo, in cui il ricevere è stato di gran lunga superiore al nostro dare. Il premio, nei villaggi in cui passavamo, era vedere il sorriso dei bambini. È con il sorriso che affrontano il loro difficile viaggio quotidiano. Ho visto bimbi che per raggiungere la scuola si fanno a piedi anche 5 km al giorno, portando con sé un quadernino e una penna che si fanno bastare per tutto l’anno scolastico. Eppure, specie in quei luoghi che non sono ancora contaminati dai media, si avverte la sensazione che quella gente a riparo dalle cose futili e soprattutto tragiche dell’Occidente, vive meglio». L’occhio attento dell’ex arbitro lascia il posto a quello del filosofo. E seguendo la rotta dello scrittore senegalese Joseph Ndiaye è arrivato fino a Gorée. L’Isola vicino a Dakar, detta la «Porta di non ritorno», per quei milioni di uomini, donne e bambini che dalla metà del ’500 da lì vennero strappati alle loro radici e ridotti in schiavitù nelle lontane piantagioni delle Americhe. «In una piazzetta davanti al mare, al riparo dai rumori del grande bazar, ho avuto attimi di grande riflessione sull’uomo. Ho riflettuto sulle tante catene, spesso invisibili, della società globalizzata in cui viviamo che ha appiattito tutto e che ha illuso quella gran parte di umanità priva di mezzi di sussistenza che in fondo se la può giocare alla pari. E intanto ci sono comunità africane dove muore un bambino al minuto… In mezzo a tanta miseria, il ciclismo, il calcio, con il loro linguaggio universale accomunano i popoli, rinsaldano lo spirito di gruppo e regalano la gioia vera e autentica del traguardo finale». Il Gran Papà è appena sceso dalla sua bicicletta, ma già sogna il ritorno. «Con la comunità di Villa San Francesco di Pedavena (Belluno), stiamo mettendo a punto un progetto per il prossimo anno: dipingere con dei murales le case di Gorée, perché torni ad essere prima di tutto un grande centro culturale e non più solo il “mercato” che deve soddisfare i desideri di passaggio dei troppi turisti per caso in giro per l’Africa».
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