mercoledì 24 ottobre 2012
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Ecco, tra pochi giorni saranno cinquecento anni precisi da quel 31 ottobre 1512 quando Paride Grassi – latinizzato in Paris Crassus Bononiensis, cerimoniere pontificio di papa Giulio II, succeduto al vecchio Burcardo nel 1504 –, poteva annotare: «Hodie primum capella nostra, pingi finita, aperta est». Come si sa, la capella nostra era la Cappella Sistina («nostra» in quanto papale) che era stata riaperta al culto ed alle cerimonie ufficiali «oggi per la prima volta» (primum hodie) giacché pingi finita. Infatti, dopo quattro anni (1508-1512) la volta è «finita d’esser dipinta» da Michelangelo. Si noti che il termine «volta» non compare e si parla, invece, di «cappella», come se ad esser stata affrescata fosse stata tutta l’aula. Non si pensi ad una svista; è che l’aspettativa per il capolavoro del grande Buonarroti, era così grande che la cappella s’identificava con la volta tout-court. Del resto, è proprio quel che succede ancora oggi: quando si dice «la Sistina», nella maggioranza dei casi, almeno che a parlare non sia uno specialista, s’intendere la volta che da tutti è considerata l’affresco più importante fra quelli che decorano l’interno dell’edificio. L’intervento di Michelangelo aveva stravolto del tutto quel sobrio equilibrio immaginato e raggiunto da papa Sisto IV quando, fra il 1477 ed il 1483 (fu inaugurata il 9 agosto di quell’anno, anniversario dell’elezione pontificia del 1471), fece costruire l’edificio e lo fece affrescare da un manipolo di pittori che annoverava i più importanti nomi del Quattrocento italiano, da Botticelli a Signorelli, da Rosselli a Ghirlandaio, mirabilmente diretti e coordinati da quell’imprenditore dell’arte che fu Pietro Vannucci, meglio noto come il Perugino. Era lui l’autore dell’immagine principale della cappella, quella a cui l’aula era dedicata, ossia la Maria assunta realizzata ad affresco sulla parete dove oggi appare il Giudizio Universale di Michelangelo e della quale è rimasto solo un disegno, eseguito prima che venisse distrutta, conservato presso l’Albertina di Vienna. Bisogna precisare, infatti, che l’interno della Sistina era assai diverso da come appare oggi, quando Buonarroti mise mano alla volta. Sulla parete che poi avrebbe accolto il Giudizio fra il 1535 ed il 1542, si aprivano due bifore, come quelle che si trovano sui lati lunghi della cappella. Lì, oltre all’Assunta, c’erano due grandi scene affrescate da Perugino: la Natività di Cristo e Mosè salvato dalle acque, prefigurazione veterotestamentaria della buona novella evangelica. Al di sopra, prosieguo – o meglio – origine di quelle finte nicchie nelle quali sono collocati i papi, c’erano il Cristo, capo della Chiesa e Pietro, primo pontefice. La volta, poi, era molto diversa, visto che fu dipinta da Pier Matteo d’Amelia come uno straordinario cielo stellato, alla maniera della Cappella degli Scrovegni a Padova, oppure, delle volte a crociera della navata di Santa Maria sopra Minerva a Roma. L’insieme doveva essere bellissimo, soprattutto se s’immagina animato dalle note melodiose delle celeberrime, angeliche voci bianche del coro detto «della Cappella Sistina» che salmodiavano dalla cantoria marmorea scolpita nel 1480 dal comasco Andrea Bregno. Michelangelo, chiamato da Giulio II a realizzare l’immenso affresco, distogliendolo dall’impresa annosa della tomba papale da lui stesso commissionata in quegli anni, fu obbligato ad intervenire per scompaginare felicemente questo straordinario equilibrio formale. La sua «volta», così, s’inserisce come un "corpo estraneo" nel programma che aveva immaginato Sisto IV e tale sarebbe rimasto se il genio toscano non avesse indissolubilmente legato – sia pure soltanto visivamente – la nuova impresa pittorica all’architettura dell’aula. Le grandi arcate marmoree dipinte da Michelangelo per suddividere in varie scene l’intera superficie, nascono dai montanti delle spalliere degli scranni di pietra che ospitano sibille e profeti i quali, a loro volta, poggiano sulle paraste dipinte che dividono le quattrocentesche nicchie dove sono i papi, in perfetta corrispondenza con i finti pilastri che separano gli episodi della vita di Cristo e di Mosè. In questo modo, l’unità architettonica viene esaltata e su di essa può costruirsi quella semantica e simbolica. La volta, infatti, vuole dimostrare come il disegno divino di salvezza che agita l’attesa dell’umanità prima della rivelazione (gli Ignudi) fosse intuito già da sibille e profeti perché presente fin dagli albori della creazione, nella separazione della luce dalle tenebre, nella Creazione di Adamo, nella punizione del Diluvio universale, nell’azione salvifica di Noè, nel germoglio reiterato della presenza degli Antenati di Cristo (in linea femminile, come ha dimostrato recentemente il compianto padre Stefano De Flores) dipinti nelle lunette e, infine, nella sconfitta del peccato originale, redento grazie alla venuta di Cristo ed alla presenza del suo successore sul trono di Pietro. Era nata così quella che conosciamo come l’icona per eccellenza della pittura occidentale, il capolavoro per antonomasia, che ciascuno può citare come esempio non altrimenti eguagliabile, ovvero quella che Giorgio Vasari, con felice espressione definiva «la lucerna dell’arte nostra».
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