lunedì 12 novembre 2012
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Una famiglia di talenti, non c’è che dire. Suo fratello, António Lobo Antunes, è uno dei maggiori scrittori portoghesi di oggi, autore di capolavori come Lettere dalla guerra e La morte di Carlos Gardel. Ma anche lui, João Lobo Antunes, è una figura di spicco nella società lusitana. Classe 1944, neurochirurgo di fama internazionale (ha perfezionato la sua formazione negli Stati Uniti, dove arrivò all’inizio degli anni Settanta grazie a una borsa di studio della prestigiosa Fullbright Association), opera attualmente presso l’ospedale Cuf Infante Santo di Lisbona e ricopre numerose cariche istituzionali. E anche lui, come António, scrive libri di grande successo nel suo Paese. Saggi, però, non romanzi: da Un modo di essere del 1996 (anno in cui gli è stato conferito il premio Pessoa) a Memoria di New York del 2002, fino a L’eco silenzioso, che porta la data del 2009. Un intellettuale di rango, dunque, che non ha mai smesso di frequentare la sala operatoria e che ha molto da dire sul «Valore della vita», il tema che il Cortile dei Gentili ha scelto per celebrare nei prossimi giorni la sua sessione portoghese. A inaugurare gli incontri sarà proprio João Lobo Antunes, in un dialogo con il cardinale Gianfranco Ravasi che si terrà venerdì 16 novembre presso l’Università di Minho, a Guimarães.Professore, lei è un clinico illustre e un saggista influente: quando si misura con il mistero della vita fa più affidamento sulla ricerca scientifica o sulla tradizione umanistica?«In realtà sono indispensabili entrambe – risponde – e oggi la frattura tra quelle che Charles Percy Snow definiva “le due culture” non è più tollerabile. Da un certo punto di vista potrebbe sembrare che i formidabili progressi in ambito scientifico e tecnologico abbiano relegato in secondo piano gli studi umanistici, intesi nella loro accezione più ampia. Ma il vero obiettivo della cultura umanistica rimane pur sempre lo studio, la contemplazione e l’indagine sul significato dell’essere umani. L’umanesimo, insomma, è decisivo per districare le complessità della nostra epoca».L’inizio e la fine della vita sono attualmente le questioni più dibattute: è un atteggiamento che lei condivide?«È vero, la società nel suo insieme e gli stessi specialisti, specie in ambito bioetico, paiono ormai polarizzarsi sul momento iniziale e su quello finale. Eppure c’è così tanto da vivere tra un estremo e l’altro! Detto francamente, a preoccuparmi di più è la “vita vissuta”, che porta con sé le sfide e dilemmi morali della quotidianità. Questo è il motivo per cui mi sento di concordare con le indicazioni della sociologa Renée Fox: l’etica della vita dovrebbe essere affrontata con uno sguardo più multidisciplinare e più filosofico, evitando l’irrigidimento in regole precostituite. Occorrerebbe più attenzione per le convinzioni di fede, così come per i sistemi di valore e per gli interrogativi di natura metafisica. E sarebbe ugualmente necessario prestare orecchio alle istanze della dignità, della dedizione e della compassione».Molte discussioni provoca anche la definizione di morte cerebrale. I parametri fissati nel 1968 dalla Dichiarazione di Harvard non sarebbero più affidabili, si dice.«Per la morte cerebrale non esistono affatto dati che possano smentire i criteri fissati ad Harvard o in altre sperimentazioni mediche. Lo stato vegetativo permanente è invece un argomento più interessante sul piano etico e scientifico. Alcuni pazienti potrebbero infatti conservare un certo grado di consapevolezza, pur rimanendo destinati a non recuperare mai le loro capacità cognitive in modo significativo. In ogni circostanza hanno quindi il diritto di essere trattati con il massimo rispetto per la loro dignità (concetto, quest’ultimo, piuttosto complesso, me ne rendo conto). Sono persuaso che le regole da seguire nella pratica dovrebbero ancora ispirarsi agli insegnamenti di Pio XII in materia».Lei ha una lunga esperienza clinica: c’è stato un episodio particolare che l’ha indotta a precisare le sue convinzioni?«No, è semplicemente successo che, con il passare del tempo, ho preso a considerare sempre più interessanti le questioni etiche sollevate dai trionfi della medicina. Mi piace dire che “l’etica è la storia delle mie inquietudini”, e queste inquietudini non si placheranno mai».Dal suo punto di vista, quali sono le principali differenze con cui Stati Uniti ed Europa affrontano le questioni bioetiche?«Gli americani, come ho avuto modo di constatare, danno molta più importanza ai valori spirituali e religiosi, e sono sempre animati dal desiderio di testimoniare la propria fede nella vita di ogni giorno. Se tutto questo li porti a essere più generosi o compassionevoli è poi un altro discorso. Resta il fatto che negli Usa il paziente è decisamente più incline a discutere gli aspetti spirituali della malattia e della sofferenza. La bioetica moderna è senza dubbio una disciplina statunitense, chiaramente modellata su valori cristiani. Il problema è che qui, in Europa, tendiamo a applicare questi, che sono in effetti i princìpi fissati dagli americani, in un contesto culturale e antropologico del tutto differente».​
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