martedì 24 novembre 2009
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Per il 7 dicembre la Scala si inventa una Carmen «laica». E per farlo chiama Emma Dante, regista di prosa, non nuova a scandali e ora al suo debutto nella lirica. «Una Carmen libera a dispetto di un paese profondamente influenzato dalla Chiesa cattolica» annuncia. Carmen che diventa «una martire contemporanea di un paese bigotto».Scusi, Emma Dante, ma se c’è un’opera dove la Chiesa non c’entra per nulla è proprio quella di Bizet. Forse ha sbagliato mira.Nella mia Carmen non è così. La Chiesa c’entra eccome. Racconto le vicende di una comunità del sud che vive di regole, dove la figura del parroco domina. Una comunità dove metto la stessa religiosità, fatta di processioni e litanie, che ho vissuto nella mia infanzia a Rodi Millici, un paesino in provincia di Messina.Lei la definisce addirittura «una martire». Non è un po’ troppo?Bizet, nell’Ottocento, ha raccontato la storia di una donna emancipata. Ma oggi, nonostante qualche passo in avanti, la situazione è ancora difficile: Carmen è libera perché sa difendersi, perché sceglie il suo destino, perché non è succube del mondo maschile. Ma è destinata a morire. Ad essere sconfitta. Perché anche oggi il mondo è dominato dagli uomini. Carmen soccombe, viene portata via, morta, su un carro funebre.Ma perché piegare Bizet alle sue tesi?Sono sicura che Bizet sarebbe d’accordo con me vedendo la sua opera attualizzata. Tanto più che nel mio lavoro non c’è niente di forzato, nessuna provocazione fine a se stessa. Come artista sento il dovere di riflettere e rileggere le grandi opere del passato facendole dialogare con il presente. Non avrebbe senso, altrimenti, riproporle in una chiave che le ponga in partenza già lontano dalla sensibilità di oggi.È per questo che ha preso l’opera di Bizet e l’ha trasportata in quella Sicilia cupa che racconta sempre nei suoi spettacoli di prosa?È la mia cifra stilistica. Ma non ho portato il mio mondo in blocco nella lirica. Non ho chiesto alla musica di piegarsi al mio immaginario. Nella prosa ho carta bianca, qui ho dovuto trovare compromessi con la musica. Mi sono avvicinata a questo teatro – ricordo la prima volta che ci ho messo piede, un anno fa, mi si è fermato il cuore – con grande umiltà, con la convinzione che la protagonista debba essere la musica.Ammetterà, però, che rileggere Carmen come la vittima di un paese bigotto non va proprio in questa direzione.Ma la mia non vuole essere una critica sterile alla Chiesa. Ho grande rispetto per il cattolicesimo e non mi sottraggo mai al confronto, anche perché ritengo che un artista debba sempre confrontarsi con cose più alte.Nei suoi spettacoli, però, lei porta in scena sempre un’umanità ai margini, sofferente, degradata. Non intravede una speranza? Non avrebbe voglia di raccontare storie positive?Rispondo con una frase di Pasolini: «Non c’è mai disperazione senza speranza». Credo profondamente in questo nonostante i miei finali siano sempre cupi. E penso che nessuno spettacolo sia mai finito, ma prosegua e sia in balia del sentimento del pubblico. Il mio compito è aiutare gli spettatori a trovare una luce in fondo al buio, non proporre quella che per me, che sono sempre in crisi nella mia ricerca di fede, è la speranza.Scusi, ma lei è credente?Sono sempre in crisi rispetto alla religione. Non sono praticante ma credente; nel senso che ritengo che nella ricerca di Dio ci sia la vita. E la ricerca è la cifra dominante del lavoro di un artista.E se il pubblico non coglierà le sue «provocazioni», non troverà una speranza una volta calato il sipario, riterrà un fallimento la sua prima volta nella lirica?Per nulla. Sono consapevole che lo spettacolo dividerà: ad alcuni piacerà, altri non gradiranno. Ma questo fa parte della vita. Qualsiasi sia l’esito non cambierò il mio modo di fare teatro.
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