giovedì 27 giugno 2019
Al Man di Nuoro gli scatti inediti del grande fotografo cesenate. Le sue ironiche «infrazioni» in un racconto che si sviluppa lungo «sentieri laterali», in due viaggi: 1974 e 2011
Gli scatti di Guido Guidi in mostra al Man di Nuoro. Sardegna, maggio 1974 / © Guido Guidi

Gli scatti di Guido Guidi in mostra al Man di Nuoro. Sardegna, maggio 1974 / © Guido Guidi

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Ciuffi d’erba che sbucano da un marciapiede, strade sterrate, pareti scrostate, porte chiuse, vetri rotti, ma anche sguardi di storie antiche e facce di ragazzi desiderosi di nuovo. Dimenticate la Sardegna così come l’avete sempre vista, com’è stata raccontata, come l’avete percepita e immaginata. C’è un’altra Sardegna, lontana dal turismo di massa e dal lusso a cui viene spesso associata e che si coglie appena atterrati all’aeroporto di Olbia. Una terra metafora universale di un modo di vedere che va oltre la “copertina” e la “meraviglia” e si sofferma su quello che c’è dietro, o intorno, sulle crepe della terra, su particolari apparentemente insignificanti, quasi inconcludenti, che mostrano paesaggi “invisibili”. Il fotografo di Ronta di Cesena, Guido Guidi, classe 1941, racconta la Sardegna dei «sentieri laterali», delle strade meno battute, con visioni a volte “surreali” e ironiche. Il suo è un percorso in due tappe distanti 37 anni: il viaggio di nozze in tre del 1974 su una Fiat 127 con la moglie Marta e l’amico fraterno Maurizio Preda, con un occhio giovane e critico, in un bianco e nero scattato con una Nikon, obiettivo 55 e un super grandangolo da 20 millimetri all’epoca appena uscito («la stessa macchina che aveva usato il protagonista di Blow updi Antonioni e che usava Ugo Mulas», specifica Guidi); e poi il ritorno nel 2011 insieme all’amico e fotografo americano John Gossage, per una committenza dell’Istituto superiore regionale etnografico, dove è chiaro il cambiamento della Sardegna e l’evoluzione del «ragionare fotografico» tipico del Guidi conosciuto a livello internazionale: le foto sono a colori scattate con la camera Deardorff 8x10, una specie di archetipo in legno della cosiddetta field camera («come quella utilizzata da Walker Evans un secolo fa, con la testa dentro il sacco»), ma anche una Hasselblad superwide e una Canon digitale per gli spostamenti veloci e gli scatti dall’auto in movimento. Queste foto inedite, ben 250, sono ora visibili (fino al 20 ottobre) nella sorprendente mostra “Guido Guidi. In Sardegna: 1974, 2011” ospitata e coprodotta dal Man - Museo d’Arte Provincia di Nuoro in collaborazione con l’Isre. «L’idea di una mostra sulla Sardegna risale a una chiacchierata che ho avuto con Guido Guidi alcuni anni fa – spiega la curatrice Irina Zucca Alessandrelli nel testo pubblicato sul catalogo che accompagna la mostra, un cofanetto in tre volumi edito dalla londinese Mack e dal Man, da un anno sotto la guida di Luigi Fassi –. Si parlava di suoi progetti non realizzati, di fotografie stampate e mai mostrate, adagiate nelle tipiche scatole gialle da pellicola fotografica 20x25 della Kodak, impilate sugli scaffali a casa di Guido a Ronta di Cesena. L’idea di quelle fotografie che da più quarant’anni riposavano al buio e che raccontavano luoghi e volti, fermi in un’epoca così tenera della vita, mi continuava a frullare per la mente ogni volta che pensavo a Guido. Dovevo portare quelle immagini allo scoperto ad ogni costo». E così è stato. Nei quattro piani del Man ecco il risultato di un andare non per «cercare», ma per «trovare», nella direzione di una poesia di Robert Frost: «Divergevano due strade in un bosco, ed io, io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza».

La mappa del tour del 1974 è andata perduta: nelle foto esposte c’è una Sardegna senza nomi, da riscoprire. Nel 2011 Guidi cercherà di ripercorrere lo stesso viaggio senza meta ma sarà inevitabilmente un giro diverso, in una Sardegna diversa. Sempre su strade secondarie. Dove «tutta la differenza» è il valore essenziale (e invisibile) di una maniglia, di un pentolino sul fuoco, di un posacenere al bar, di un’ombra su un muro. Anche di persone certo, di presenze percepite, a volte mostrate, ma quasi mai protagoniste. La Sardegna e l’altrove. Scatti «rivoluzionari» rispetto alla fotografia degli anni Settanta e pienamente moderni oggi, al tempo di Instagram, che potrebbero spiazzare anche i più originali Igers. «Ma io sono di un’altra generazione», sorride sornione. «Rivoluzionario? Il mio professore Italo Zannier scrisse un articolo in cui mi definiva “Trasgressivo”. Non so. In fondo sono più d’accordo con quello che diceva Giuseppe Pontiggia: “Mi sono permesso di fare delle piccole infrazioni”».

1Guidi avrebbe voluto fare l’insegnante di disegno, ha studiato e si è formato allo Iuav di Venezia. Poi sceglierà di disegnare con la macchina fotografica. Per disegnare con la luce. O forse con l’ombra. «Disegnare è anche designare: mi fa pensare a qualcosa in transito, a qualcosa che viene da lì e si trasforma in là, è indicare come potrebbe essere una cosa – spiega Guidi –. Così un negativo è a metà strada fra quella cosa che è lì e la stampa che è là». Un designare che si può constatare nei lavori più architettonici di Guidi come nelle straordinarie sequenze realizzate sulla Tomba Brion di Carlo Scarpa a San Vito di Altivole. Uno stile («in realtà per Borges “non bisogna avere uno stile, ma scrivere nello stile di tutti”», precisa Guidi) che si affina passando dalle foto del 1974 a quelle del 2011. «In 37 anni la Sardegna è cambiata. Facendo fotografie in Sardegna sono cambiato. E sono cambiato anche senza fare foto in Sardegna. Sono cambiati gli strumenti con cui ho fotografato la Sardegna e non solo. Tutto è evoluzione. Il fotografo statunitense Garry Winogrand diceva: “Fotografo per vedere come la realtà si trasforma in fotografia”». Un osservatore acuto, Guidi, grazie a un occhio inteso come «una macchina fotografica pensante», attratto da stranezze, da curiosità del paesaggio, da geometrie e prospettive. Con uno sguardo lontano dall’umanesimo di altri grandi fotografi della sua generazione: nelle sue foto l’uomo quando non c’è si percepisce, ma quando c’è è come se non ci fosse. «L’uomo si crede di essere chissà chi - riprende -. Già Giorgione di cui io sono un fanatico, alla fine del ’400 lo dipingeva più piccolo all’interno del bosco delle cose». Nelle fotografie di Guidi l’uomo è memoria, «traccia, come dicono i filosofi del medioevo».

La fotografia è il modo di Guidi di «essere nel mondo», di «identificarmi con le cose», di «vedere la realtà». Ed è così che diventa «un atto di preghiera»: «Sono un laico, però ho una certa educazione di cui vado fiero. Sono religioso in quanto fotografo. Come Ezio Raimondi invitava a incamminarci nei testi letterari da “pellegrini”, non da turisti, così dobbiamo essere pellegrini nei viaggi che facciamo con la macchina fotografica. Il critico e filosofo Didi-Huberman nota che “il Beato Angelico dipinge imitando la natura”. L’atto di imitazione è anche l’atto di imitagere, ed è un atto devoto. La fotografia imita: è un atto devoto, verso le cose che vedo. E mi inchino davanti a esse. Soprattutto quando uso la Hasselblad». Davanti a piccole cose che abitano la terra ma non hanno voce. E che in qualche modo lo riportano sempre alla sua, di terra. «Con gli anni mi accorgo che anche se vado a Chicago l’occhio trova cose che potrebbero essere a casa. Ritrovo le mie origini e mi piace ritrovarle». A pochi passi dal Man, nella parte più antica di Nuoro, si trova la casa di Grazia Deledda, la casa delle sue origini. Dalla sua finestra che guarda al monte Ortobene si vede il mondo. Attraversando da “pellegrini” i libri della scrittrice, premio Nobel per la letteratura 1926, è facile trovarsi qui e poi andare altrove. Così come incamminandosi per i luoghi della Sardegna «trovata» da Guidi, da Orgosolo a Oschiri, da Orani a Sarule. La Sardegna, ovunque.

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