martedì 23 giugno 2009
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Essere minoranza significa impersonare il seme del Seminatore della parabola evangelica: «Un riferimento politico costante è da molti anni in qua, per me, la parabola del seminatore. Si semina senza saper bene dove il seme andrà a cadere, e se attecchirà, e se darà una pianta fruttuosa. Dipende da dove cade, prevederlo non è possibile». Nonostante questo, bisogna rischiare di essere «minoranza etica», ovvero «persone che scelgono di essere minoranza, che decidono di esserlo per rispondere a un’urgenza morale. […] Don Milani fa dire ai suoi scolari, alla fine della Lettera a una professoressa, che gira e rigira, la cosa fondamentale è per sempre l’amore del prossimo, e io vedo in questo anche l’inizio di ogni tentativo di agire nella storia per portarvi più giustizia, la realizzazione dei principi di libertà, uguaglianza e fraternità. È dall’amore del prossimo che sono nate le grandi rivoluzioni sociali e politiche. Questo deve essere il nostro orizzonte, vecchio e nuovo insieme: l’orizzonte della solidarietà con gli oppressi e tra gli oppressi». Per uno che, per tanti anni, è stato considerato un’eminenza grigia di prim’ordine della cultura progressista italiana, è alquanto singolare tale valutazione ammirata del cattolicesimo sociale. Goffredo Fofi, critico cinematografico, intellettuale ed animatore sociale, giornalista ­anche su queste pagine - , lancia più di una suggestione nel racconto autobiografico a due voci con Oreste Pivetta confluito in La vocazione minoritaria. Intervista sulle minoranze (pp. 164, euro 12), in uscita questa settimana per Laterza. L’autore umbro sgombera subito il campo: il suo interesse per i gruppi minoritari non è esotico, bensì ha un interesse primariamente etico: «Credo che gli intellettuali dovrebbero avere l’obbligo morale, determinato dalla possibilità che hanno di studiare e capire di più e meglio degli altri, di osar essere minoranza, di scegliere di esser minoranza, di mostrare una diversità reale, di legare la propria ricerca a una qualche forma di intervento sociale». Per Fofi questa «vocazione minoritaria» - simboleggiata da un quadro, La vocazione di Matteo di Caravaggio, che egli possiede nella sua camera da letto - ha assunto i tratti di un pluriforme impegno educativo: l’immersione nel proletariato torinese, in quello 'marginale' a Napoli come collaboratore ad una mensa popolare, tra gli italiani emigrati a Parigi. «In Sicilia avevo raggiunto Danilo Dolci, per tre anni condivisi in modo pieno la vita dei disoccupati di Partinico e di Palermo e dei bambini di Cortile Cascino», rievoca Fofi, riferendosi all’esponente pacifista siciliano. Altra esperienza di minoranza raccontata è quella della comunità Agape di ambito valdese, e di Nomadelfia di don Zeno Saltini. Ambienti minoritari decisivi per Fofi furono poi Aldo Capitini e la sua non violenza attiva, e Alex Langer, l’attivista-politico bolzanino, «il migliore di tutti noi». Tutte vicende di minoranza rispetto all’omologazione dominante che per Fofi scaturiscono da un preciso assioma: «Il rifiuto di partecipare a un sistema di sopraffazione e di violenza». E invece i maître a penser della cultura italiana, soprattutto a sinistra, hanno deluso il direttore della rivista Lo straniero: «Non si sono più voluti davvero 'diversi' dai loro committenti. Ridotti ad appendice strumentale del potere o funzionari di questa o quella istituzione, a intrattenitori delle masse teleguidate dal 'principe', a educatori senza amore e interesse per gli educandi e senza libertà di metodo e di proposta». Però Fofi individua alcune «minoranze della minoranza» che resiste e porta avanti un discorso culturale fatto di resistenza etica all’omologazione. Ammira quei cattolici, in diverse forme, che sono Goffredo Fofi stati a suo parere il prodotto migliore del Sessantotto: «Credo che il meglio è venuto da certe minoranze cattoliche, che hanno preso molto dal ’68, ma che ne hanno tradotte le istanze nelle pratiche di organizzazione e difesa di chi vive ai margini». Esempi? Nel testo si fa il nome di don Vinicio Albanesi e della sua comunità di Capodarco, «che si occupa di handicap. Credo che se la condizione degli handicappati in Italia è enormemente cambiata in meglio dopo il ’68 sia stato per merito di questi gruppi». Poi ci sono i nomi 'storici' delle minoranze cattoliche che Fofi ammira per la loro lucida ed evangelica testimonianza: Mazzolari, Milani, Dossetti, A fianco don Zeno di Nomadelfia con i suoi ragazzi. Sopra Aldo Capitini, sotto Alex Langer. Turoldo, Balducci, Vannucci, il defunto direttore della Caritas di Roma don Luigi Di Liegro. E risalta una speciale venerazione per don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, «un uomo eccezionale, un altro il cui magistero è stato poco ascoltato». Che dovrebbero fare le 'minoranze etiche' oggi di fronte alla crisi della cultura (Fofi ha parole molto dure per l’attuale pensiero di sinistra, per non parlare dei politici ed ex comunisti …)? Ripartire dall’educazione. Anche con una proposta che farà inorridire molti dalle parti della gauche nostrana: «Oggi che la scuola di Stato è diventata il disastro che sappiamo ormai tutti […], se tu volessi dar vita a qualcosa di tuo, magari in forma cooperativa, non riusciresti a farlo: una quantità di leggi e regolamenti assurdi te lo impedirebbe». Anche un pensatore lucido e fuori dagli schemi come Fofi, conterraneo del Poverello d’Assisi, condivide così l’idea che la libertà di educazione può rimettere in moto il Paese.
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