sabato 23 luglio 2022
Un racconto-riflessione di Antonio Perazzi conduce a interrogarci sul nostro ruolo nella natura, dove l’uomo ha insieme il diritto e il dovere di stare: con la dedizione e la cura del giardiniere
Berlino, Schöneberger Südgelände

Berlino, Schöneberger Südgelände - Marco Zanini/Fondazione Benetton

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L’ultima edizione del premio Scarpa per il giardino ha incoronato il parco naturale urbano di Schöneberger Südgelände a Berlino: la città e il gruppo di artisti Odius hanno rispettato la vegetazione spontanea cresciuta lungo i tracciati delle vecchie ferrovie e l’hanno intersecata con passerelle, sculture, opere d’arte. Era incolto, è divenuto paesaggio. Perché il paesaggio non è mai naturale: è il risultato dell’intersezione tra uomo e natura. Ogni territorio abitato dall’uomo lo è, e soprattutto lo è la nostra Europa dove non c’è quasi angolo che non sia stato plasmato, nei secoli, dalla mano tenace degli abitanti: dalle foreste divenute boschi alle montagne divenute alpeggi, dalle coste divenute spiagge alle più ovvie pianure divenute campi, e città. Dove questo processo si fa più consapevole, parliamo di giardino, ma perfino il confine tra il giardino e il paesaggio che lo attornia è spesso sfumato, impreciso – come ogni confine, sempre astrazione arbitraria. Di giardini si occupa professionalmente Antonio Perazzi, che è anche scrittore e che, dopo libri come Contro il giardino. Dalla parte delle piante (con Pia Pera, Ponte alle Grazie 2007) e Il paradiso è un giardino selvatico. Storie ed esperimenti di botanica per artisti (Utet 2019), ha ora dato alle stampe I giardini invisibili. Un manifesto botanico (Utet, pagine 192, euro 16,00). Un racconto-riflessione nato dall’esperienza sul campo come progettista di giardini, e che però si amplia e abbraccia il senso del nostro stare nella natura, ed essere natura. Per Perazzi il giardino è “allenamento intellettuale continuativo” «capace di produrre stimoli estetici e sensoriali che elevano l’individuo e fanno del bene alla collettività»; è “cultura del paesaggio su misura” «in cui il rapporto con la natura e con le piante rappresenta il punto di partenza per una relazione intima con il luogo»; ed è “arte” che «non si giudica dalla disponibilità dei mezzi e probabilmente non segue nemmeno regole universali all’infuori dell’armonia». Una visione di prospettiva ampia, che porta immediatamente al di là delle semplicistiche concezioni dei giardini come meri fondali decorativi, più o meno aggraziati, e conduce al nocciolo del nostro rapporto con la natura; anzi, argomenta Perazzi, «emerge l’inappropriatezza dell’aggettivo “naturale”, e per estensione del sostantivo “natura”. Pochi si accorgono che il paesaggio agricolo non è naturale, così come non lo sono i giardini. Ciò che invece lo è davvero, naturale, sono le isole di paesaggio, spartitraffico, spazi abbandonati, cantieri bloccati, zone di rispetto intorno a centrali nucleari, sfridi di terreno tra una proprietà e l’altra eccetera, zone escluse dalla convenienza umana, in cui il selvatico si esprime spontaneamente». Lo scrittore-giardiniere, nel suo testo fitto di richiami storici e letterari, si rifà esplicitamente a don Milani e alla sua adozione del motto I care (mi interessa, mi importa, ho a cuore): «questa la base della convivenza, umana e non», contrapposta a quell’idea del mondo selvatico che, «nell’era in cui più si anela l’aiuto della natura, è finita per sottendere il caos». Non è così, precisa: «L’incolto – inteso come non più coltivato, cioè senza cura – è il vero caos». Ecco allora che occorre «acquisire un senso di appartenenza alla natura ripartendo dal mondo selvatico, che non si esprime sotto forma di caos, e neppure di estremismo ambientalista, ma piuttosto come un nuovo scenario della complessità armoniosa di cui il mondo vegetale deve tornare a essere indiscusso protagonista»; in questo contesto, «il giardino non è un luogo da sfruttare bensì il luogo dove può avvenire un incontro, svilupparsi un dialogo con la natura. In caso contrario il giardino, presto o tardi, anche se si trattasse solo di uno sfruttamento estetico, si ribellerà, non in maniera violenta ma con quella forza inarrestabile della natura che continua il suo percorso nonostante l’uomo». In un momento storico in cui il nostro rapporto con la natura torna a essere al centro di tanta riflessione, colta o spontanea che sia (per rimanere al lessico del giardiniere), non è inutile interrogarsi sul sostanziale antropocentrismo di ogni paesaggio: sia per acquisire la consapevolezza necessaria per poter agire con rispetto e logica, sia per rigettare quelle tentazioni, che qua e là a volte serpeggiano, di idealizzare un qualche “stato di natura” primigenio da cui l’uomo è escluso, o peggio, nel quale l’uomo è considerato il cancro del pianeta. Nel creato, del quale è parte, l’uomo ha insieme il diritto e il dovere di stare: non irresponsabilmente, predatoriamente, ma con la dedizione e la cura del giardiniere. Il faut cultiver notre jardin, diceva Voltaire.

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