sabato 7 settembre 2019
La lega inglese vale due volte e mezzo il nostro campionato E sui diritti tv il confronto è impietoso Eppure sono tanti i giocatori arrivati quest’estate dai club inglesi: «scarti» secondo i media
Salah e i giocatori del Liverpool vincitori dell’ultima Champions League

Salah e i giocatori del Liverpool vincitori dell’ultima Champions League

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La Champions vinta dal Liverpool lo scorso giugno a Madrid e l’Europa League alzata dal Chelsea pochi giorni prima a Baku, entrambe nell’ambito di finali fratricide contro rispettivamente Tottenham e Arsenal, hanno riportato sul campo il calcio inglese laddove, in fondo, dovrebbe essere per diritto, o quantomeno per immagine proiettata. Davanti a tutti in Europa insomma, grazie a una fuga che dura ormai da lustri: quello della Premier League è il calcio più ricco in termini economici e di fascino, di brand e di capacità di convertire questa visibilità in ricchezza e, conseguentemente, di attirare altro denaro.

E poi gli stadi (riempiti mediamente per oltre il 90% della capienza), il pubblico, l’eco globale e anche la spettacolarità delle partite. Pazienza se poi anche lì vincono più o meno sempre le stesse, perché il movimento migliora di anno in anno e così, altrove, resta solo la consapevolezza di essere al cospetto dei primi della classe. Non senza una punta di invidia, non senza il tentativo di scimmiottare abbastanza frequentemente - e quasi sempre con esiti tra il ridicolo e il fallimentare - ciò che in Inghilterra funziona, ed eccelle, perché tutt’attorno può contare su un contesto che lo valorizza e nel quale nulla nasce per caso. Parlano i numeri del resto e, se è vero che non spiegano tutto, di certo indicano uno stato dell’arte indiscutibile: secondo i dati elaborati da Kpmg-Football Benchmark, in Premier i ricavi operativi crescono mediamente del 15% ogni anno (in A del 5% appena) e il la principale lega inglese vale, in termini economici, due volte e mezza il nostro massimo campionato.

Se si guarda ai diritti tv, poi, il confronto è impietoso, considerando che si parla della leva chiave: l’accordo per il triennio 2019-2022 ha portato alla Premier 1884 milioni di euro a stagione, mentre per il triennio 2018-2021 la A si è fermata a 973 milioni a stagione. Il prezzo per match venduto? 9,4 milioni contro 2,6. Eppure, in quest’ultima sessione di calciomercato, in Serie A è arrivata praticamente una squadra di Premier: un quinto di Manchester United (Darmian, Smalling, Lukaku, Sanchez), un paio di ex giocatori dell’Arsenal (Ramsey e Mkhitaryan) e del Watford (Sema e il ritorno di Okaka), ma vabbé, in quest’ultimo caso il club che fu di Elton John è di proprietà della famiglia Pozzo, e i due sono finiti non per caso all’Udinese. E poi Danilo dal Manchester City, l’ex Spurs e finalista di Champions Llorente, Ghezzal dal Leicester City, Zappacosta che rientra in patria dopo l’esperienza al Chelsea, un Obiang anch’egli di ritorno dal West Ham, infine il giovane ambizioso e impaziente Bobby Duncan (classe 2001 ex Liverpool, ora alla Fiorentina) e, se vogliamo, pure Giannelli Imbula, il quale a dirla tutta arriva dagli spagnoli del Rayo Vallecano, ma è di proprietà dello Stoke City che ogni anno estate, dal 2017 a questa parte, negli ultimi giorni di mercato lo sbologna in prestito dove può. Gli undici ci sono, qualche riserva pure: manca solamente un portiere. Il dubbio, a questo punto, è legittimo: è una A che si arricchisce o che, come ha titolato il Telegraph un paio di giorni or sono, si tuffa nel supermarket degli avanzi della Premier? Le parole sono importanti, e il termine utilizzato è proprio quello: leftovers, scarti in buona sostanza. Perché sì, hai voglia a parlare di occasioni e di nomi di grido, di titolari delle proprie nazionali e di giocatori di indiscutibili qualità, tuttavia nessuno dei tanti ex Premier catapultati nella Serie A è un acquisto strappato al club precedente, ma si tratta di giocatori bene o male fuori da quell’entità quasi metafisica che ormai in ogni club prende il nome di “progetto”.

Ecco allora scambi, prestiti, diritti di riscatto e biglietti aerei per l’Italia. Aspetto, questo, che non vieta l’eventuale successo dei leftover in A, tutt’altro: per un Lukaku che pare essersi caricato immediatamente l’Inter sulle spalle, c’è un Danilo che - magari un po’ casualmente - ci ha messo poco più di venti secondi per farsi applaudire dai tifosi della Juventus, mentre la Roma attende con fiducia la colonia ex Premier, formata appunto dall’armeno Mkhitaryan, Smalling e Zappacosta. Sempre lì si torna: esplodono? Significa che davvero la A rende fenomeno chi, in Premier, non lo è. Falliscono? Avanzi, appunto. Non se ne esce. La prova del nove si avrà, almeno in parte, analizzando le prestazioni dei pochi che hanno compiuto il percorso inverso: Cancelo da Guardiola, Kean all’Everton e Cutrone ai Wolves, Praet al Leicester, ed è lecito supporre che, chi più chi meno, dovranno faticare per trovare un posto. Dal campo alla panchina, dove la A resta insuperabile nel suo complesso quando si parla di tattica e strategia, dove il gioco è quello degli allenatori. Sono tornati Maurizio Sarri e Antonio Conte, due che in Inghilterra non sono stati a lungo, ma quel poco a entrambi è bastato per arricchire la propria bacheca, e di riflesso quella del Chelsea, di una Premier e una FA Cup l’interista, di una Europa League lo juventino. Altro che leftover.

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