lunedì 14 luglio 2014
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Alla voce «fragilità» il Dizionario analogico della lingua italiana Zanichelli, edizione 2011, ai consueti significati – gracilità , debolezza, caducità – ne aggiunge altri: «vulnerabilità, sensibilità, delicatezza». Come se questa parola avesse, nel tempo, acquistato altre valenze, e non soltanto negative, ma anzi indicative di categorie buone dello spirito. Di qui parte Eugenio Borgna, psichiatra e saggista, per continuare nel suo ultimo lavoro La fragilità che è in noi (Einaudi, pagine 106, euro 10,00) un discorso che si trova in filigrana in tutti i suoi libri: se, cioè, la fragilità che sempre negativamente associamo a malattia, o vecchiaia, o a follia, non porti in sé, insieme a solitudine e dolore, anche come una porta segreta, un luogo in cui proprio quella che agli occhi del mondo è debolezza si fa invece sentiero per l’avvento di un Altro. Come già affermava  Paolo, nella Seconda lettera ai Corinzi: «Quando sono debole, allora sono forte». Predilige, la fragilità, scrive Borgna, come suo humus il silenzio. I lunghi silenzi delle camere di ospedale o il mutismo sofferente di certi anziani; predilige, forse, coloro che usano parsimoniosamente le parole, temendo di pronunciarne di inutili, o chi attraversa frangenti della storia di fronte ai quali nessuna parola basta. Come Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che nel suo Diario scriveva: «C’è in me un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono tante parole che stancano, perché non riescono a dire nulla». La fragilità dunque, nel nostro tempo esausto di rumore, spesso tace. Non ha parole nei vecchi caduti nella demenza, o nei folli, o nei depressi, murati nella loro solitudine. Volti che dovremmo imparare a leggere, oltre le parole; con cui dovremmo imparare a dialogare, zitti anche noi, magari solo con una carezza. La fragilità, dice Borgna, vive anche nelle storie degli umili, in quella che Norberto Bobbio chiamava la "microstoria", milioni di esistenze che si concludono anonime, e all’apparenza banali. Eppure la segreta attitudine della fragilità, che sembrerebbe solo la qualità dei vinti, secondo il professore è anche altro, ben altro. La fragilità non esclude la possibilità di una gioia interiore che, scrisse Rilke, nulla ha a che vedere con quella che chiamiamo felicità. La felicità è appagamento dei propri desideri, mentre la gioia, una gioia misteriosa possibile anche nei "fragili", è, secondo Borgna, «un’emozione luminosa che è causata da qualcosa non di esteriore ma di interiore: quasi una fontana che sgorga dagli abissi della nostra interiorità». Un destino insondabile che consente di scorgere la luce anche in un lager, come testimonia proprio la Hillesum nelle sue splendide Lettere da Westerbork. E Eugenio Borgna traccia come un itinerario fra nomi e volti che affermano la speranza singolare e mai mondana che si affaccia tra le pieghe di vite sofferenti. Sono soprattutto donne, le testimoni di questo varco segreto dell’anima. Il professore cita Teresa d’Avila, secondo la quale Dio conduce per sentieri di angoscia coloro che molto ama, e Teresa di Calcutta, con il suo buio interiore che, agli occhi degli altri, splendeva di luce. Cita la poetessa Antonia Pozzi, e Simone Weil, quando parla di fragilità che gridano nell’anima, e che possono essere intese solo con una sensibilità che «appartiene all’ordine della grazia». Grazia, ecco, è questa la parola che percorre la trama del libro di Borgna, affiorandone spesso senza essere mai pronunciata a alta voce: chiedendosi se non appartenga, la fragilità che agli occhi del mondo è solo malattia o impotenza, oltre che alla categoria del dolore a quella ineffabile della grazia. Come intuì Paolo, e come intuiva Emmanuel Mounier: «Dio, passa attraverso le ferite». Quasi che proprio il luogo e il tempo della debolezza fossero il momento in cui a noi, uomini fatui e orgogliosi, il Dio invisibile si rivela vicino, e anzi proprio nel profondo del cuore (Etty Hillesum: «Un pozzo molto profondo è dentro di me, e Dio c’è, in quel pozzo. A volte il pozzo è coperto da sabbia e sassi, e allora bisogna che di nuovo lo dissotterri»). Dove chi legge si chiede se avrebbe mai scritto pagine così splendide quella giovane ebrea, se fosse rimasta la studentessa viva e spensierata che era prima che arrivassero i nazisti a Amsterdam. La fragilità dunque, disprezzata dal mondo, occasione di emarginazioni e eutanasie, davvero intesa come la debolezza di Paolo. Il luogo in cui, nel silenzio, spesso nella sofferenza, l’Altro si rivela. La circostanza in cui si può, sotto alla sofferenza, palesare il "porto sepolto" di Ungaretti, con i suoi lucenti misteriosi tesori.
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