martedì 15 marzo 2022
Il presidente della Cei delinea la profezia del «sindaco santo» per la Chiesa e il mondo di oggi: contemplazione e azione sono le due forme di vita del cristiano
Giorgio La Pira (1904-1977)

Giorgio La Pira (1904-1977) - archivio

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Per un cristiano, diceva La Pira, «la geopolitica coincide con la geografia della grazia». E la carità non separa mai la grazia dal pane. Da questa lezione di vita e di fede parte il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, per raccontare nel volume Il pane e la grazia che esce in questi giorni per la Libreria editrice vaticana (pagine 140, euro 13) «la profezia di La Pira per la Chiesa e il mondo di oggi». Il «sindaco santo» voleva costruire «una società nuova» nella quale «a tutte le creature umane sia assicurato il lavoro, la casa, il pane e quanto è essenziale a una modesta ma dignitosa vita». Sapendo però che le fondamenta di questa città dell’uomo sono «saldamente poggiate sull’Evangelo» e «radicate nella grazia di Cristo». Pubblichiamo l’introduzione del libro.

Ho vissuto abbastanza per vedere cambiare il mondo. Il dramma della Seconda guerra mondiale, la ricostruzione dopo l’abisso, le speranze del Concilio Vaticano II, la fine del bipolarismo Est-Ovest, la società odierna. A far da filo conduttore a queste grandi vicende della storia c’è la mia piccola esperienza di vita: iniziata in un minuscolo paesino dell’appenino tosco-romagnolo, Marradi, proseguita poi nella città di Dante Alighieri, Firenze – che mi ha formato e fatto diventare un uomo e un sacerdote – e infine continuata nelle diocesi in cui sono stato vescovo: Massa Marittima e Piombino, Arezzo, Perugia. A volte, ripenso con tenerezza a quando, da bambino, mi accompagnavano a vedere le macerie delle case distrutte dai bombardamenti della guerra e io portavo con me un ombrellino rosso che tenevo aperto per coprirmi il capo. Quell’ombrello rappresentava una forma di protezione dalle bombe che sarebbero potute piovere dal cielo. La guerra era finita, ma la memoria di quella devastazione covava nell’inconscio di un bimbo che aveva da poco iniziato il suo pellegrinaggio nella vita terrena. Ho trascorso una vita felice, amando il prossimo e ricevendo amore dagli altri. Quell’ombrellino rosso non c’è più da tempo. La mia unica protezione è stata Cristo che mi ha guidato lungo il sentiero dell’esistenza come un pastore con il suo gregge. Tuttavia, nel momento in cui una persona si ferma a tirare il bilancio della propria vita, non può non partire da dove tutto è iniziato: dalla famiglia d’origine, dai primi maestri, dai luoghi in cui si è cresciuti. Persone e villaggi pressocché sconosciuti ai più, ma decisivi nella mia storia personale. Fantino, Popolano, Crespino, Marradi sono piccoli borghi abbarbicati sui monti e attraversati da un fiume, il Lamone, che era un amico con cui giocare e anche una sorta di maestro da cui imparare tante cose. I veri maestri, però, erano in carne e ossa: don Pietro Poggiolini e don Giovanni Cavini, due sacerdoti fondamentali per la mia fede e la scelta di vita consacrata. Il mondo in cui sono nato era totalmente diverso da quello attuale. Era, innanzitutto, il mondo delle campagne in cui la ritualità della vita si sovrapponeva totalmente, spesso fino a confondersi, con la liturgia religiosa. Era il mondo del noi e non certo quello dell’io. La condivisione era una realtà quotidiana e non solo un’aspirazione ideale. Nella comunità montanara in cui sono cresciuto, certi valori come la sacralità della vita, la centralità della famiglia e la solidarietà fra le persone erano accettati dalla maggioranza della popolazione. Eravamo poveri di cibo, ma affamati di Cristo. Il pane era senza dubbio la sintesi sublime della nostra fame: era il pane-alimento che veniva prodotto dopo un lungo, paziente e faticoso processo artigianale e che non mancava mai nella nostra mensa; ma era anche il pane eucaristico, segno della morte e risurrezione del Signore, che abbraccia tutto l’universo e stringe a sé tutti i problemi dell’umanità perché il corpo di Gesù è strettamente unito al corpo mistico che è tutta la Chiesa. Da questa esperienza di vita ho tratto due grandi insegnamenti: la fede cristiana si incarnava nella storia, nella nostra umanità, non rimaneva un progetto astratto, ma pretendeva che ogni membro di quella comunità diventasse una persona vera e piena. Questa fede vissuta ci portava, inoltre, a impegnarci per la difesa dei nostri diritti sociali e per l’inviolabilità della dignità della persona umana. Il diritto al pane si intrecciava visceralmente con la fame di Dio. Da questo punto di vista, l’incontro spirituale e umano con il cattolicesimo fiorentino e con la figura di Giorgio La Pira è stato decisivo. Quest’uomo minuto, di origini siciliane, che si era fatto povero tra i poveri, che scrutava il mondo con lo sguardo lungo del profeta, «aveva il senso dei fini», come disse Paolo VI, e «sapeva dove andare». Sapeva andare lontano perché conosceva bene le sue radici, riconosceva con umiltà che anche la sua vocazione era il frutto di una storia complessa che lo precedeva e lo sovrastava. «Don Facibeni e il cardinal Dalla Costa – scrisse nel 1964 – sono stati le componenti più determinanti della storia fiorentina degli ultimi trent’anni ». E poi subito dopo aggiunse: «Noialtri, il signor La Pira e tutti gli altri, sapete da dove si viene? Si viene da don Giulio Facibeni. Siamo tutti quanti figli suoi, veramente siamo alimentati dalla sua carità, dalla sua speranza, dalla sua fede». Don Giulio Facibeni era solito definirsi come un «povero facchino della Provvidenza», ma in realtà fu un vero e proprio gigante della carità e un apostolo per le giovani generazioni. Il cardinale Elia Dalla Costa, riconosciuto nel 2012 «Giusto tra le nazioni» dal Museo dell’Olocausto Yad Vashem di Gerusalemme, era invece il prototipo del vescovo-pastore: il rigore e la carità erano due facce della stessa medaglia.

Il cattolicesimo fiorentino in cui sono cresciuto era dunque il frutto di questa grande tradizione religiosa che è ben rintracciabile, tra l’altro, in molti altri uomini di fede come David Turoldo e Lorenzo Milani, Divo Barsotti e Ajmo Petracchi, Ernesto Balducci e Giuliano Agresti. Vista da questo angolo visuale, la Firenze lapiriana è stata un laboratorio di civiltà che ha sviluppato una proposta cristiana rivolta non solo all’Italia, ma all’umanità intera. In fondo, la città lapiriana non era altro che il frutto della consapevolezza che l’uomo vive di pane e di grazia. Non di solo pane e nemmeno soltanto di grazia, ma di pane e grazia. Da questa consapevolezza, che è anche un’assunzione di responsabilità verso il genere umano, nascono le visioni e le azioni di La Pira: le lotte accanto agli operai della Galileo e della Pignone non erano in alcun modo scindibili dalla proclamazione di Firenze come «città mariana»; il progetto dell’Isolotto con al centro la piazza del mercato e la Chiesa si legava, indiscutibilmente, con l’organizzazione dei convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana. Secondo la sua visione, infatti, la città di Firenze doveva essere la città dell’uomo e della pace in cui doveva splendere la gloria di Dio. Una gloria che si rispecchiava nella dignità umana e per cui valeva la pena spendersi ogni giorno, nelle grandi come nelle piccole cose. Ma i «sapienti politici », come La Pira definiva i suoi critici, lo rimproveravano perché queste proposte erano soltanto le idee di un «ingenuo», di un sognatore che «si lascia giocare» dai suoi avversari. Tuttavia, nel gennaio 1955, in una delle sue tante lettere a Pio XII, ricordò al pontefice che «non è ingenuo lo Spirito Santo invocato da migliaia di anime verginali» e che, in questo momento, «come vento di amore, vuole aprire le porte di Gerico per farvi penetrare l’ondata salutare della grazia, della pace e della libertà cristiana! ». Un mese dopo, nel febbraio 1955, scrisse all’amico Amintore Fanfani, in quel momento segretario della Democrazia Cristiana, ammonendolo con franchezza che «il pane (e quindi il lavoro) è sacro: la casa è sacra: non si tocca impunemente né l’uno né l’altro. Questo non è marxismo: è Vangelo!». In questa continua oscillazione tra la dimensione spirituale e quella sociale si può cogliere il significato de «il pane e la grazia». Che poi, altro non è, che la sintesi di un cristianesimo che vuole farsi prossimo ai bisogni dell’uomo contemporaneo partendo sempre da quell’unica roccia, su cui dobbiamo costruire la nostra esistenza, che è Cristo, come ricordò Paolo VI nel discorso di chiusura del Concilio Vaticano II. L’umanesimo cristiano di La Pira è anche «l’umanesimo plenario» a cui fa spesso riferimento Montini: un umanesimo cristocentrico che non si rinchiude dentro una fortezza identitaria minacciata dal nemico di turno, ma vive incarnato nell’«ora presente », come amava scrivere Giulio Salvadori, per poter consegnare un mondo migliore alle generazioni future.

Per fare questo, però, serve il realismo del laico cristiano che vive la politica come «un impegno di umanità e santità». E l’unico realismo che, oggi come ieri, apre nuove prospettive alle generazioni future è quello del Vangelo delle Beatitudini e di chi non si stanca di avere fame e sete di giustizia. Questa fame e sete di giustizia si riflette anche in un’altra immagine molto cara all’ex sindaco di Firenze che, negli ultimi anni, durante il pontificato di Francesco, ha avuto un’enorme diffusione nell’opinione pubblica mondiale: quella del «ponte». In particolare, l’espressione «abbattere muri, costruire ponti» – che La Pira utilizzava per incoraggiare la pacifica unificazione politico-giuridica tra tutti gli Stati del mondo e che vedeva nella Chiesa un «centro di gravità delle nazioni » – è diventata oggi un’immagine simbolica di quella cultura che promuove il dialogo internazionale e che favorisce l’accoglienza e l’integrazione dei migranti.

A ben guardare, però, l’immagine del «ponte» per La Pira ha anche un significato teologico-spirituale. Il concetto fondamentale nella costruzione di un ponte – scriveva l’ex sindaco di Firenze in una delle tante lettere che inviò negli anni Cinquanta alle suore di clausura – consiste nello stabilire un collegamento «fra due sponde, che sono parimenti essenziali alla vita della Chiesa ed a quella della civiltà umana: la “sponda” della contemplazione e la “sponda” dell’azione ». Contemplazione e azione: ancora una volta, dunque, la dimensione spirituale e quella sociale non sono scindibili. E proprio per questo motivo, queste parole suonano, oggi, come un forte ammonimento per i cattolici del mondo contemporaneo che troppo spesso sembrano dividersi fra «cattolici della morale » e «cattolici del sociale». È bene ricordare, però, che il messaggio del Vangelo è unico, non interpretabile per compartimenti stagni, e la dignità della persona umana è inviolabile in ogni momento dell’esistenza. Da questa vocazione all’amore per l’uomo come creatura di Dio nasce, infatti, la nostra attenzione ai poveri e ai migranti, ai bambini mai nati e ai malati terminali, ai giovani e agli anziani, agli studenti e ai lavoratori, ai disabili e alle famiglie ferite. Occorre pertanto valorizzare e proteggere, come ci ha insegnato il Concilio, l’«uomo integrale, nell’unità di corpo e di anima, di cuore e di coscienza, di intelletto e volontà». Questa continua tensione tra contemplazione e azione, tra anima e corpo, tra spirituale e sociale è pienamente ravvisabile in tutta l’opera di La Pira. Egli, infatti, si prefigge come fine ultimo di costruire «una società nuova, ad ispirazione cristiana, nella quale a tutte le creature umane sia assicurato il lavoro, la casa, il pane e quanto è essenziale a una modesta ma dignitosa vita umana ». Questa società nuova, però, non si configura come un’azione di ingegneria sociale, ma esige che le sue «fondamenta metafisiche, culturali, artistiche siano saldamente poggiate sull’Evangelo » e, soprattutto, siano «radicate nella grazia di Cristo». Questa è, a mio avviso, il cuore pulsante della proposta de «il pane e la grazia»: una proposta che ambisce a promuovere uno «sforzo gigantesco di solidarietà mondiale» per raggiungere un obiettivo «di fraternità e di pace». Mai come oggi, infatti, queste parole sono di straordinaria attualità per la nostra società globalizzata e nichilista, indifferente e individualista. Accanto alla necessità morale di ricostruire ciò che è distrutto, c’è un’urgenza spirituale di ricucire ciò che è sfilacciato e un dovere sociale di pacificare ciò che è nella discordia. In definitiva, come pastore, come credente e come cit-tadino sento il bisogno forte, non solo di capire cosa è cambiato nel mondo contemporaneo negli ultimi 80 anni, ma di provare a indicare anche un piccolo sentiero per il futuro.

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