mercoledì 3 settembre 2014
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La fotografia di una bambina africana accucciata sopra le macerie della sua casetta ha ispirato un vigoroso romanzo d’esordio che è stato già tradotto in una dozzina di lingue, ha rastrellato premi, è stato finalista al Booker Prize e sarà presentato venerdì al Festivalletteratura di Mantova: C’è bisogno di nuovi nomi (Bompiani, pagine 266, euro 18,00). A dare l’esempio è stata la stessa autrice, la trentatreenne Elisabeth Zandile Tshele. Si è scelta un nuovo nome, NoViolet Bulawayo, rivelatore delle sue radici, perché Bulawayo è la seconda città, dopo la capitale Harare, dello Zimbabwe, il Paese dove è nata e che ha lasciato diciottenne per trasferirsi negli Stati Uniti dove, dopo un master all’Università Cornell, è attualmente Stegner Fellow alla prestigiosa Stanford californiana. «Spero che immaginare la vita di quella bambina e raccontarla – dichiara l’autrice – possa servire a far pensare che è reale, che è là fuori, come i tanti migranti che incontriamo per strada e sul lavoro, senza chiederci mai chi sono». Darling ha dieci anni, vive in una baraccopoli dal tristemente ironico nome di Paradise, e nel primo capitolo la vediamo rubare frutti di guava con una banda di ragazzini affamati nei giardini di un quartiere residenziale abitato da bianchi e da neri arricchiti. Incontrano una donna che vuole fotografarli per farsi un bottino da diffondere come stereotipate immagini di un’Africa affamata e lacera, e le gridano dietro fino a spaventarla, poi nella boscaglia vedono una donna impiccata e le rubano le scarpe per venderle e comprare del pane. E tutta quest’avventura è raccontata dalla voce di Darling con feroce innocenza, con una rabbia che non sa rinunciare ai sogni dell’infanzia. Scritto come un racconto a sé, questo primo capitolo ha meritato all’autrice il “Caine Prize for African Writing” e l’ha convinta a continuare la storia di Darling, facendone risuonare la voce come l’eco di una tragedia collettiva, di un popolo alla deriva, senza perdere quanto di sorprendente, fresco e immediato scaturisce dalle reazioni di una bambina.
È un espediente letterario molto collaudato ma sempre efficace, alleggerire il racconto di una realtà complessa e penosa attraverso la trasparenza dello sguardo infantile, e tutte le piaghe che si possono evocare quando si parla dell’Africa assumono nell’esperienza quotidiana di Darling risvolti anche comici, come i bizzarri amuleti fabbricati dagli stregoni, l’invasato profeta che vuol cavarle dall’anima lo spirito indiavolato di suo nonno, e il padre morente di Aids a cui gli amici di Darling tirano le braccia inerti cantando un inno su Giobbe. La stessa religiosità di Darling riflette la sua amarezza: «Forse la gente prega male». La storia recente dello Zimbawe compare per gli accenni a un regime cupo e corrotto che costringe gli uomini a emigrare per cercare lavoro in Sudafrica, che fa chiudere le scuole perché non paga gli insegnanti, che scatena la violenza dei paramilitari contro interi quartieri di presunti oppositori. Darling registra la delusione dei familiari in seguito a elezioni-farsa che sono quelle del 2008 in cui il dittatore Robert Mugabe, ininterrottamente presidente fin dall’indipendenza del 1980, dovette affrontare il ballottaggio per il rinvigorirsi dell’opposizione, ma poi prevalse grazie a clamorosi brogli.
La violenza respirata dai bambini si riflette nei loro giochi ispirati all’attualità: con i suoi amici Darling gioca a «catturare Bin Laden», oppure al «drago cinese in cerca di persone da mangiare per diventare forte e grasso», ma soprattutto «all’eliminazione delle nazioni» in cui ogni partecipante sceglie di essere una nazione, e nessuno «vuole essere uno straccio di nazione come il Congo, la Somalia, il Sudan e nemmeno il Paese in cui viviamo: chi ci tiene a essere un posto terribile dove si fa la fame e tutto cade a pezzi?».Una volta Darling riesce a essere la nazione più ambita, gli Usa, «il grande babbuino che regge il mondo», e poco dopo il suo sogno si avvera: vivrà negli Stati Uniti con una zia che fa la badante nel Michigan. La seconda parte del libro fa da contraltare alla prima: è un mondo rovesciato quello in cui si trova proiettata Darling, è il mondo dell’abbondanza e della libertà, ma il prezzo da pagare è quello di essere «seduti sul bordo della sedia, perché come puoi stare seduto comodo se non sai cosa ti succederà domani?». Darling ha nostalgia del suo paese, attraverso Skype parla con una sua amica di Paradise, ma si sente accusata di tradimento: «Se dici che questo è il tuo Paese, allora lo devi amare, viverci e non lasciarlo. Devi combattere a tutti i costi per il tuo paese, per tornare a far funzionare le cose».Un’eco di questo senso di colpa si può forse trovare nei ringraziamenti finali del libro, in cui l’autrice ringrazia la sua «amata patria per le storie, per l’anima e per lo stile».
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