venerdì 2 maggio 2014
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Michel Khleifi, che nel 1980 ha filmato La memoria fertile – due donne, l’intellettuale di Ramallah e l’operaia di Nazareth, nella loro pesante quotidianità su cui si riversano le enormi contraddizioni della Palestina occupata – doveva essere uno dei nomi di spicco presenti a Lecce nell’ambito del Festival del Cinema Europeo, per partecipare all’incontro sul Cinema palestinese: il sogno di una nazione. La sua sedia, però, è rimasta vuota. Per oltre una settimana ha atteso il documento che gli avrebbe permesso di rientrare nella Westbank, ma non è mai arrivato. Michel avrebbe, comunque, condiviso le parole di Mai Alkaila, ambasciatrice dello Stato della Palestina in Italia. «Pur se viviamo in situazioni del tutto negative – ha dichiarato aprendo i lavori della tavola rotonda – oggi proprio il nostro cinema si trova in una fase più costruttiva e rivolta al futuro. Oggi sono almeno 150 i registi impegnati sul fronte di nuove produzioni, una diversità di talenti che attestano una grande creatività. Che si è assunta una responsabilità precisa: difendere il popolo palestinese in una prospettiva umanitaria e politica. Significa difendere la nostra cultura, che ha radici profonde, e la nostra identità, aggredita ogni giorno».  A Lecce sono stati proiettati alcuni recenti capolavori: Il matrimonio di Rana di Hany Abu-Assad, del 2002, uno dei primi film palestinesi a essere arrivato a Cannes; Un biglietto per Gerusalemme di Rashid Masharawi, sguardo ravvicinato sulla vita di ogni giorno nella Palestina occupata con nuove forme di resistenza civile; Alia Arasougly e un titolo chiarissimo, Questo non è vivere, in cui intervista donne comuni sui temi della pace e della guerra. E poi i più noti, Elia Suleiman e Mohammed Bakri, autori di riferimento del nuovo cinema palestinese. «Non c’è dubbio che ciascuno di questi conservi la propria personalità – spiega Monica Maurer, che ha curato la Settimana del Cinema Palestinese per il Festival –. Però è chiaro che in tutti loro, rispetto al passato, l’obiettivo della semplice liberazione della Palestina si è molto ridimensionato. Oggi si mira a una maggiore concretezza. Sanno di lavorare senza uno status preciso perché non appartengono a uno Stato vero e proprio. Questo significa non avere diritti e leggi internazionali che ti proteggono, dunque lavorare in una situazione perennemente critica. E poi, sia chiaro: non esiste un cinema esclusivamente palestinese, perché senza i produttori internazionali non si avrebbero i fondi per realizzarlo. E qui nascono ulteriori problemi, soprattutto di controllo e addirittura di autocensura». Lo denuncia Sahera Dirbas, regista indipendente come lo sono tante sue agguerrite colleghe palestinesi, una quindicina riunite in un’associazione che si chiama "Cinemalife", oggi impegnate sul fronte del recupero della trasmissione della storia e la difesa dei diritti delle donne. «Le censure toccano anche l’uso della lingua: ci viene spesso imposto di non usare l’espressione "campo profughi" ma "luogo affollato". Nonostante questo il cinema palestinese è particolarmente vitale: riusciamo a girare documentari con maggiore facilità, perché possiamo trovare storie di vita in ogni angolo di strada e perché viviamo in situazioni che sono del tutto al di fuori della normalità».I registi e le registe palestinesi hanno acquisito col tempo una prospettiva di speranza, elemento prima coperto dalla miseria e dall’umiliazione. «Oggi sicuramente la portavoce di queste aspettative è Najwa Najjar – precisa Monica Maurer – che ricorda quanto sia stata disastrosa per la società palestinese la seconda Intifada, quando l’immagine dei palestinesi è stata ridotta a una banda di terroristi ed è stato liquidato tutto il tessuto di società civile faticosamente costruito negli anni. Nel 2008, con Melograni e Mirra, ha capito che per sopravvivere doveva avere un obiettivo, per lei il cinema, col quale dar voce alla realtà in una prospettiva non più di odio. Prima di lei, Tawfiq Abu Waal aveva girato il durissimo Luce alla fine del tunnel, in cui affrontava le varie forme di prigionia cui sono costretti migliaia di palestinesi. È il capostipite di una giovane generazione di cineasti nata e cresciuta nella Palestina occupata che ha acquisito un nuovo senso, non più ideologico, di resistenza culturale attraverso il cinema».
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