La trama potrebbe ricordare il Pirandello di
Male di luna, per via dell’uomo convinto di covare una belva dentro di sé, ma anche il Verga rusticano e passionale della
Lupa o dell’
Amante di Gramigna. Riferimenti che Eka Kurniawan ascolta con curiosa attenzione, proprio come faremmo noi italiani nel sentir citare i classici della giovane letteratura indonesiana. «È vero – ammette lo scrittore –, nel mondo ci sono storie che si assomigliano, anche se si svolgono a distanza, senza alcun contatto reciproco».
L’uomo tigre(traduzione di Monica Martignoni, Metropoli d’Asia, pagine 166, euro 12,50) è il libro che ha fatto conoscere in Occidente questo romanziere quarantenne, considerato una delle voci più promettenti nel panorama indonesiano di oggi. Il suo nome appare nella rosa ristretta della rappresentanza di Giacarta alla Buchmesse (dove il Paese asiatico è appunto ospite d’onore), ma Kurniawan conserva la gentilezza e lo stupore di un ragazzino. «La società in cui vivo offre molte opportunità a un narratore – spiega – perché il confine fra città e campagna rimane ancora oggi molto labile. In ogni quartiere si ripete la dinamica tipica del villaggio: tutti sanno tutto di tutti, le chiacchiere circolano al mercato e nei pressi della moschea, i giovani non vedono l’ora di spostarsi di almeno qualche isolato, fuori dal controllo della famiglia e della comunità».
Quanto conta nella società l’elemento religioso?«Oggi l’Indonesia è il più grande Paese musulmano del mondo, ma in passato è stato il più grande Paese buddhista e prima ancora induista. Anche il cristianesimo ha lasciato tracce profonde nella cultura dell’arcipelago, che è sempre stata straordinariamente sensibile alle tradizioni provenienti dall’esterno. Questo non significa che l’Indonesia non abbia una sua identità, anche dal punto di vista religioso. L’islam che si pratica nel mio Paese è però molto diverso da quello che si trova, per esempio, nella Penisola araba. L’atteggiamento predominante è improntato a un’estrema tolleranza verso le altre fedi e il fondamentalismo è del tutto minoritario».
Anche in questi giorni, però, ci sono stati assalti alle chiese cristiane…«Sì, ma episodi terribili come questi vanno compresi in un contesto che non è strettamente indonesiano. Sarei tentato di dire che, nella fase attuale, il fondamentalismo è un problema globale, non dei singoli Paesi».
In che senso?«In questione, secondo me, non sono tanto gli ideali che ci si propone di difendere, ma gli strumenti che si sceglie di adoperare. Proprio qui alla Buchmesse Salman Rushdie ha ricordato come lo stesso Occidente corra oggi il rischio di chiudersi in una posizione simile a quella dei fondamentalisti. Quando vedo le immagini degli afroamericani maltrattati o uccisi dalla polizia negli Stati Uniti, quando sento l’ennesima notizia della strage in un college, ho l’impressione che sullo sfondo ci sia la stessa mentalità che altrove guida i terroristi: imporre le proprie ragioni con la violenza, venendo meno al rispetto per l’altro».
Non pensa che l’Indonesia dovrebbe intervenire con più forza?«Il mio Paese ha conquistato l’indipendenza da settant’anni, ma solo dal 1998, con la caduta del regime di Suharto, abbiamo iniziato a interrogarci seriamente sul significato della democrazia. Il fondamentalismo musulmano gode di pochissimo consenso, in termini elettorali raggiunge a stento il 5% e si tratta di un dato che rimane invariato nel tempo, per quanto gli organi di informazione e in particolare i social media tendano ad amplificarlo. Mettere al bando una formazione di questo tipo comporterebbe un duplice pericolo: da un lato la rafforzerebbe, suscitando un clima di risentimento e rivalsa, dall’altro costituirebbe un precedente molto ambiguo, in base al quale il governo si sentirebbe autorizzato a prendere provvedimenti simili contro altri partiti».
La tolleranza come principio di precauzione, insomma.«Lo ripeto: la nostra è una storia recente e, per certi aspetti, davvero unica. Lo dimostra anche la vicenda della nostra lingua nazionale, il
bahasa indonesia. In origine non era affatto la parlata più diffusa ma, al contrario, l’espressione di una minoranza. Eppure è stata scelta per dare coesione e identità al Paese. Qualcosa di simile è avvenuto nel folklore: siamo musulmani, ma leggiamo ancora i grandi poemi della tradizione induista, come il
Mahabharata e il
Ramayana, che nel frattempo si sono a loro volta arricchiti di elementi islamici. Anche i personaggi dei miei libri, del resto, frequentano la moschea, ma non per questo hanno smesso di credere nelle leggende degli antenati».