giovedì 25 giugno 2020
I settantenni e gli ottantenni di oggi sono stati la generazione del benessere. La pandemia li ha riportati alla realtà: nulla è garantito
Antonio Calabrò

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Antonio Calabrò va particolarmente fiero del titolo del suo nuovo libro, Oltre la fragilità (Egea, pagine 200, euro 17,00). «L’ho deciso già all’inizio di marzo, quando l’emergenza stava montando e il paragone più frequente era quello tra il coronavirus e la guerra – dice –. È un’equazione che non mi ha mai convinto, perché presuppone una retorica della preoccupazione che non concede alternative alla paura del disastro. Fin dal principio, secondo me, occorreva andare in una direzione differente: di progetto e non di rassegnazione». Accompagnato dagli interventi dell’economista Francesco Giavazzi e di monsignor Gianni Zappa, il libro non è un diario della pandemia, ma un’analisi delle scelte sulle quali, da qui in poi, «costruire la nuova trama delle relazioni economiche e sociali», come annuncia il sottotitolo. Una riflessione che viene da una prospettiva molto particolare, nella quale confluiscono la lunga esperienza giornalistica di Calabrò e il suo ruolo di intellettuale d’azienda (è direttore della Fondazione Pirelli e vicepresidente di Assolombarda), la passione per la città dove vive e lavora, Milano, e la fedeltà alle origini siciliane. «Ho fatto il cronista di nera all’Ora di Palermo – ricorda –, mi sono trovato sulla scena di tanti delitti di mafia. So bene, purtroppo, che la morte appartiene all’orizzonte della vita».

Una consapevolezza che il coronavirus ha reso ancora più dolorosa, non crede?

Senza dubbio. E lo smarrimento è stato tanto più forte in una metropoli come Milano, nella quale la ferita rimane evidente anche in questi giorni di lenta ripresa. Insieme con la sofferenza c’è una sensazione di orgoglio incrinato. Al di là di questo, però, gli elementi fondamentali della città restano intatti. In passato Milano avrà anche peccato di una certa arroganza da primato, ma rappresenta comunque l’area del Paese più ricca di sinergie tra impresa, manifattura, ricerca, cultura, finanza e qualità della vita.

E il resto d’Italia?

Milano è la parte per il tutto, non un’eccezione. L’intero Paese è chiamato ad affrontare problemi che in Lombardia si sono manifestati prima e in modo più grave. Proprio per questo la fragilità deve essere riconosciuta come uno strumento che può aiutarci a riconoscere i nostri punti di forza.

A che cosa si riferisce?

Pensiamo all’alleanza tra economia e salute. Alleanza, ripeto, e non contrapposizione, come si continua a ripetere da mesi. Un imprenditore autentico si distingue da uno speculatore proprio per l’attenzione che riserva al benessere dei propri dipendenti, in una visione di sostenibilità che non si riduce a qualche sporadica iniziativa ecologista. La vera sostenibilità, al contrario, è quella che si prende cura del capitale umano in tutta la sua complessità di creatività e competenze. La reciprocità fra salute e sicurezza è una componente irrinunciabile.

Sì, ma questo non toglie che ci sia stato più di un errore...

Un buon imprenditore non agisce esclusivamente per il proprio profitto, ma per garantire l’andamento del lavoro su una scala di lungo periodo. Questo obiettivo, di per sé legittimo, può aver provocato distorsioni che esigono di essere corrette. Ora più che mai occorre sviluppare ulteriormente una sostenibilità capace di agire in funzione della competitività.

In che modo?

Salvaguardando qualità e sicurezza del produrre e del prodotto, e incorporando nel processo quelle caratteristiche di cultura e di bellezza che sono tipiche della tradizione italiana. In questa accezione allargata le nostre imprese sono da sempre non solo sostenibili, ma anche competitive a livello internazionale. Nella fase attuale, questa specificità diventa la premessa per una svolta che metta al centro il cittadino e non il consumatore.

Entriamo nel territorio della politica?

Sì, ma della politica autentica, non in quella rappresentazione approssimata del Paese che ancora rischia di produrre molti danni. Gli italiani sono persone perbene, lo hanno dimostrato durante la quarantena. Sono disposti a riconoscere che essere cittadini comporta doveri oltre che diritti, ma non possono accontentarsi di una logica assistenziale, che privilegi la logica del sussidio a quella dello sviluppo. Detto in modo ancora più esplicito, questo è un Paese che ha bisogno di un investimento straordinario nei settori della formazione e della ricerca.

Lei si richiama alla cosiddetta “cultura politecnica”.

Umanesimo e scienza insieme, esatto. Era lo spirito del “Politecnico”, la rivista fondata da Elio Vittorini nell’immediato dopoguerra, ma lo si riconosce già nell’opera di Carlo Cattaneo e prima ancora nell’avventura dell’Umanesimo, che armonizza tra loro matematica e arte. Non è dei numeri che dobbiamo avere soggezione, tanto meno della tecnologia.

Come giudica l’accelerazione degli ultimi mesi?

Siamo stati costretti a fare di necessità virtù, per esempio chiamando smart working quello che in sostanza era semplice lavoro a distanza. Ma era chiaro fin da prima che il cambiamento è in atto, il Covid–19 non ha fatto altro che renderlo più evidente. Chi aveva letto la Laudato Si’ sapeva già in che modo la tecnologia incida su una concezione ampia della sostenibilità. Ed è per questo, insisto, che occorre investire sull’istruzione e più ancora sulla formazione di lungo periodo. Alcune figure professionali scompariranno, d’accordo, ma altre ne nasceranno. Il welfare ha il compito di sostenere le persone nella transizione da un lavoro all’altro, esaltando il fattore umano che sta all’origine di ogni impresa. La creatività è pensiero poetico, anche e specialmente in ambito tecnologico.

Il coronavirus ha ridisegnato la questione generazionale?

Ha colpito la generazione cresciuta in uno dei momenti più fortunati della storia. I settantenni e gli ottantenni di oggi hanno conosciuto i benefici del boom economico, si sono mossi in un clima di speranza che non trova più riscontro, purtroppo, nelle aspettative dei ragazzi e delle ragazze di adesso. Sono due mondi che finora non hanno dialogato abbastanza e che anzi, una volta di più, sono stati messi in contrapposizione. Il dramma della pandemia li ha riavvicinati. Dobbiamo impedire che tornino ad allontanarsi.

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