venerdì 12 agosto 2011
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Anthony Trollope è uno scrittore inglese dell’800 che io forse apprezzo esageratamente. Nel suo ultimo racconto, Il termine fisso, di anomalo impianto settecentesco, rappresenta una civile, virtuosa società del futuro nella quale, con scelti eufemismi e gradevoli decori vittoriani, si impone l’eutanasia a tutti coloro che compiono i sessantasette anni. La soluzione rimane troppo umanitaria anche a volere aggiungere, ai sessantasette, cinque o dieci anni in rapporto al prolungarsi della durata della vita umana (per una parte del pianeta). Ma che dopo una certa età venga severamente vietato svolgere attività con risonanza pubblica, come dare alle stampe libri o altri scritti (ad esempio questo), o partecipare a convegni, mi sembra una ragionevole misura minima di decenza. La realtà è che il volgere dei troppi anni cala un velo buio sui nostri occhi, offuscandoli: io spero sempre che le cose non stiano come le vedo. Sono vecchio, appunto, e pensionato. Per meglio dire "Emerito", con la maiuscola: è il titolo che spetta dopo una carriera come la mia. Vedovo; o mezzo vedovo: mia moglie è morta una dozzina d’anni dopo la nostra tardiva separazione; cagionandomi un particolare imbarazzo durante le esequie. Faccio pure lo scrittore: autore di non pochi libri di fiction che in genere hanno avuto mediocre fortuna; sebbene siano rientrati nella lotteria dei premi, anche maggiori. Appunto da uno di questi premi, che di recente mi ha visto finalista (non vincitore), inizia la storia che sto raccontando. Già: perché? Perché, con tutte le mie primavere, scrivo ancora libri, collaboro ai giornali e addirittura concorro ai premi letterari, accettando di partecipare ai relativi inverecondi fasti mondani? Perché mai? Ho appena detto che in una società rispettabile dovrebbe essermi interdetto, col giusto rigore. Ma certo non è la più grave delle mie contraddizioni. Per quanto nel pubblicare, nell’espormi (sorretto dal mio bastone), nel prendere la parola davanti a un uditorio (col triste privilegio dell’età), io mi senta sempre una pesantissima, angosciosa, non transeunte coda di paglia. Se non so nemmeno cosa ci sia di vero nella storia dentro la quale sono preso e di cui ora sto rendendo conto. Benché io la viva come l’unica mia, adesso: quella che conclude tutte le altre della vita. In breve (giacché mi sono state richieste non più di settemila battute, spazi compresi). Il premio in questione veniva assegnato in una metropoli mediterranea, di cui portava il nome, da una giuria popolare; e, cosa non infrequente, veniva chiamato Superpremio; i finalisti (tre, mi pare), selezionati da una giuria di pretesi esperti, ricevevano anch’essi un premio intitolato alla città (non nella dimensione super), col diritto di fregiarsene: Todos Caballeros! Ed erano, cioè eravamo, invitati alla kermesse: che durava tre giorni, fra conferenze stampa, interviste, tour turistici nelle scuole (con obbligo di arringa), banchetti e altri circenses, sino al rush finale in un teatro storico. Ci ospitava un albergo lussuoso, su un lungomare da cartolina. E fu nella stanza a me destinata che la cosa iniziò: fin dalla prima notte. Nel cuore di essa, svegliato d’improvviso, avevo visto che il lampadario centrale risplendeva inondando di una gran luce la stanza. Era stata anzi tutta quella luce (ne resto convinto) a interrompere il mio sonno. Come mai si era accesa? Ero e sono certo che non si era trattato d’una mia dimenticanza. Provai una vaga inquietudine: ricordo che mi ero levato ed ero andato a controllare se la porta fosse ben chiusa (lo era), prima di spegnere. L’indomani mattina, rispondendo alla sveglia telefonica, mi accorsi che adesso era acceso (sinistramente) l’abat-jour sul comodino opposto al mio. Ho consumato quasi la metà dello spazio concesso e, chiedo venia, devo correre. Avevo rivolto delle rimostranze al concierge: il quale aveva replicato con sommesse manifestazioni di stupore e decise rassicurazioni. Ma l’inconveniente si era ripetuto (sempre l’abat-jour più distante) anche le successive due notti. Nessun altro degli ospiti del Premio, cui ne avevo parlato a tavola, aveva avuto esperienze simili. Pensai a un falso contatto nell’impianto elettrico: scandalizzandomi perché si verificava in un albergo con tante pretese. Ma durante il viaggio di ritorno alla mia città, anch’essa di mare, che malauguratamente avevo voluto fare in motonave, d’un tratto fui destato nella notte, dentro la cabina singola, dall’accendersi della lampada, proprio sulla mia faccia. Si ha idea dello squallore di tali cabine e di tali lampade? Ma soprattutto mi aveva investito un senso di vera, ignota paura per la inesplicabile recidiva. Basta. Tornato a casa, il primo giorno e la prima notte trascorsero tranquilli. Ma l’indomani la signora che si occupa come domestica a ore del ménage (la mia Badante, la chiama un collega meno anziano di me, o la Marescialla, trattandosi della vedova d’un appuntato degli agenti penitenziari), nel servirmi la colazione mi aveva detto: «Professore, ieri ha dimenticato acceso il lampadario del salotto che dà sul giardino». La luce, spiegò, trapelava dalle porte a vetri. Nemmeno ero riuscito ad articolare una risposta: in quel salotto, che tengo sbarrato e serrato a chiave, e che era pertinenza pressoché esclusiva di mia moglie, io non metto mai piede. Da allora non c’è notte che non si accenda da sé, misteriosamente, qualcuna delle lampade della mia casa troppo grande: spesso nella camera dove dormo io. E guai (la prima volta mi ha assalito un panico insensato) se, nel buio e nel silenzio, ad accendersi è il televisore: con le sue musiche o le sue voci disumane. La reiterazione di fatti simili in luoghi diversi e distanti fra loro (l’albergo oltremare, la motonave, casa mia) non mi consente di pensare a una spiegazione naturale. Ho chiamato un elettricista, gli ho fatto svolgere accuratissimi controlli: con poche speranze, che naturalmente si sono dimostrate vane. «Tutto a posto, professore». Inutilmente ne ho parlato a mia figlia (la quale è sempre stata dalla parte della madre ed è poco benevola nei miei confronti): «Sei tu che ti dimentichi le luci accese». Magari fosse. Lo devo però escludere, con certezza quasi assoluta; e il quasi dipende dal mio antico mestiere di scienziato; ma ancor più dalla desolazione dell’età tarda, che ci rende implausibili a noi stessi. Il fatto è che l’assoluto discredito (magari celato, magari condiscendente o pietoso) è la più assidua compagnia dei vecchi. Una notte ho provato a staccare l’interruttore centrale, aiutandomi con una lampada a pile. Non solo si è riattaccato prima del mattino, e la luce elettrica ha invaso la mia camera da letto; ma dopo che l’ho spenta e mentre senza risultati inseguivo il sonno, ho visto accendersi sul comodino, come per dileggio, l’occhio della lampada a pile. E stamattina la Marescialla mi ha dato il buon giorno avvertendomi che c’era la casa allagata: «Professore, lei nel bagno piccolo ha dimenticato il rubinetto aperto col bidè tappato». Non occorre dire che io non faccio mai uso del cosiddetto bagno piccolo; che nessuno c’entra mai (la domestica adopera quello di servizio). Cos’altro devo aspettarmi? Dio mio, Dio mio.
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