mercoledì 31 marzo 2010
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Tra i vari comandi e prescrizioni contenuti nella Bibbia ve n’è uno che può sembrare alquanto strano e inverosimile. Parlando al pio israelita, Dio gli ordina, nel caso dovesse incontrare sulla sua strada l’asino del nemico che si è sperso, su per i monti o tra i dirupi, di prenderlo in custodia e riportarglielo appena possibile in quanto strumento indispensabile al lavoro e quindi anche a una dignitosa sopravvivenza. È un limite alla vendetta. Vi si riconosce che ci sono degli aspetti della vita umana sui quali non c’è vendetta che tenga, aspetti che vanno comunque garantiti, tra questi vi è appunto il lavoro o, almeno, la sua possibilità. È all’interno di questa prospettiva che bisogna mettersi, per inquadrare tutta la problematica circa i crolli eccellenti che vi sono stati durante il terremoto del 6 aprile, e, tra questi, quello ormai tristemente famoso della Casa dello studente. Quei giovani abitavano la mia parrocchia, almeno giuridicamente. Li incontravo ogni volta che uscivo e rientravo da casa, in quanto dovevo percorrere quel tratto di strada su cui si affacciavano le loro sale da studio. A volte ci studiavamo a distanza, qualcuno aveva avuto il coraggio di superare il portale della chiesa. I care, direbbe don Milani. Mi stavano a cuore, non come territorio di conquista, ma come figli affidati alle mie cure pastorali per i quali cercavo, attraverso una fantasia pastorale, approcci capaci di aprire a loro la possibilità dell’incontro con Cristo. Evidentemente non stavano a cuore solo a me, visto quanto si è parlato di quella maledetta Casa dello studente. Alla prima reazione, giusta, di salvare quante più vite possibili, ne è seguita una non meno giusta ma fatta diventare diabolicamente onnicomprensiva: la ricerca dei colpevoli di una simile tragedia. Non che questo sia sbagliato: i colpevoli, se ci sono, vanno cercati e puniti, ma non sarà questo a ridare la vita a quei ragazzi, né basterà questo a rendere più sopportabile il dolore dei loro genitori e delle persone che li amavano. Nessuna giusta sentenza potrà mai ridare loro i sogni di quella notte, tanto meno i sogni fatti di giorno, a occhi aperti, sogni questi che, attraverso un serio percorso di studio, si stavano piano piano trasformando in progetti. Un attimo dopo la più severa sentenza di condanna, ci troveremo di nuovo a combattere con il nostro senso di impotenza e la nostra più profonda solitudine. La priorità, allora, non è quella di colpire i colpevoli, ma di educare gli innocenti. Quando il lavoro è visto e vissuto solo come guadagno, come realizzazione del massimo profitto, coniugato possibilmente al minimo impiego di energie, allora è consequenziale l’ipotesi di omicidio colposo. Non deve crollare alcuna casa perché ci sia il reato, potremmo dire che il reato è in re, nella cosa stessa. Quando un’amministrazione, pubblica o privata, un ente, statale o meno, sceglie, come modalità di affidamento dei lavori, l’asta al ribasso, cosa chiede in fondo alle ditte se non di arrancare alla meno peggio e consegnare l’opera bell’e fatta, disposta a chiudere uno o due occhi su quella formuletta che chiudendo ogni capitolato d’appalto, dice: completamente finita e in perfetta opera d’arte? Qui sta la discriminante vera: il lavoro non è più opera d’arte, ma è qualcosa che sta tra due parentesi: i tempi di consegna e il profitto. Per questo occorre punire i colpevoli, ma soprattutto occorre educare coloro che ancora sono innocenti, facendo capire che ogni lavoro e tutto il lavoro, non è consegna di prodotti per il mercato, ma collaborazione all’opera creatrice di Dio. Se tutti coloro che hanno lavorato alla Casa dello studente, all’ospedale, in università, lo avessero fatto con la coscienza di chi sta continuando l’opera di Dio, sono sicuro che di crolli ce ne sarebbero stati molti di meno. Le indagini si stanno orientando verso i costruttori, anello più debole e forse più immediato della catena, ma dove erano i progettisti? Dove le amministrazioni appaltanti? Dove era la coscienza degli autisti delle betoniere cariche di cemento con sabbia non adeguata? Da chi ha messo il primo timbro a chi ha messo l’ultimo, nessuno ha avuto la grazia di lavorare da artista?! Possibile che nessuno si sia ricordato che in quella casa i loro figli avrebbero dovuto passare i loro anni migliori? Possibile che nessuno abbia pensato a un letto sicuro per i sogni e gli amori di queste giovani generazioni? Possibile che nessuno dei tanti che hanno costruito l’ospedale si sia ricordato che lì si va per vivere e non per morire? Che l’ospedale rappresenta il punto di asilo sicuro nel caso di disgrazie e calamità? Che quello è il luogo in cui vedranno la luce i nostri figli? E così si potrebbe dire del tribunale, della prefettura, del municipio e di tante altre strutture miseramente crollate, scosse da un terremoto, violento, bisogna pur riconoscerlo. Ancora una volta è stato il Papa, con una disarmante semplicità, a richiamare questa dimensione altra e alta del lavoro umano. Incontrando un gruppo di studenti presso ciò che restava della Casa dello studente di via XX Settembre, ha detto a uno di questi che studia ingegneria: «Voi dovete ricostruire L’Aquila, fatelo con criterio». La stessa cosa avrebbero detto i miei nonni. Criterio, ossia quella sapienza umana che nasce da un cuore che desidera per gli altri ciò che desidera per se stesso. La giustizia non sfoci nella vendetta, il tempo non scada nella dimenticanza, l’uomo si ricordi che il lavoro lo rende sempre più simile a Dio, il quale non si stanca di ricreare in ogni istante la vita. E forse anche noi preti, prima di benedire un qualsiasi locale od opera pubblica, prima di presenziare a tagli di nastri e brindisi rituali, dovremmo pretendere il rendiconto del lavoro eseguito, da dove si evince che Dio lo avrebbe fatto allo stesso modo, con lo stesso cuore e gli stessi materiali, perché in fondo noi siamo ministri solo suoi, e di nessun altro, e un ministro è significativo e autorevole solo se si fa portavoce di chi lo manda.
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