giovedì 10 settembre 2020
L'algoritmo che abbina i quadri del Metropolitan Museum of Art con quelli esposti al Rijksmuseum di Amsterdam sulla base di possibili connessioni formali non immediatamente individuabili
L'intelligenza artificiale? Riconosce ma non capisce

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La indagine sulla intelligenza artificiale sembra tendere sempre più alle derive dell’enigmistica. Veicola una idea di conoscenza basata sulla ricombinazione di frammenti e parti di strutture raccolte qua e là da rimescolare attraverso paragoni, associazioni sovrapposizioni, imitazioni. La IA, più che acquisizione di nuove coscienze capaci di scandagliare l’essere in modi mai visti, oggi è il terreno quasi esclusivo del pensiero statistico, attraverso cui rendere omogenei contenuti che possano soddisfare un approccio generico e massificato e di conseguenza individuare aree di mercato da conquistare. In questo modo favorisce la gestazione di una società dove la idea stessa di profondità viene cancellata a favore di una diffusione orizzontale indiscriminata e senza alcun interesse al senso, che anzi ne mina il funzionamento scorrevole. In questa direzione mi sembra andare anche il protocollo che ha portato alla sperimentazione con MosAIc, in cui i ricercatori del Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (Csail) del Mit in collaborazione con Microsoft, hanno compilato un algoritmo che abbina i quadri del Metropolitan Museum of Art con quelli esposti al Rijksmuseum di Amsterdam sulla base di possibili connessioni formali non immediatamente individuabili da un osservatore.

L’idea è che l’algoritmo potrebbe essere in grado di cogliere analogie nascoste tra lavori apparentemente diversi, sul piano stilistico, cromatico, compositivo, di attinenze posturali delle eventuali figure rappresentate, evidenziando in questo modo nuovi possibili link di opere distanti tra loro nel tempo e nello spazio. Senza entrare eccessivamente nel tecnico, la mia prima obiezione riguarda il metodo. Da un certo punto di vista MosAIc può essere utile per la sua dinamica, entrando nel merito della relazione tra eventi visivi di culture e ambienti differenti. In tema è se la modalità “dinamica” porti un qualche contributo nel portare l’influenza della IA sul sapere a un piano superiore. Quale tipo di relazione stabilisce l’algoritmo? Sostanzialmente superficiale. L’obiettivo dei ricercatori nell’esperienza con MosAIc era creare ponti che andassero oltre la “apparenza” per arrivare alla rete dei significati. Il significato è il vero problema insormontabile per la IA. Qualunque traduzione questa faccia dei significati è destinata a rimanere mappatura meccanica di un termine. Riduzione monodimensionale che declassa il significato e lo porta sullo stesso piano della apparenza. La IA non distingue in alcun modo per profondità del senso ciò che scannerizza. Per la IA i frammenti non sono possibilità di qualcos’altro in potenza. Sono quello che sono. Anzi sono la mappa di ciò che sono. Una mappa linguisticamente afferente alla categoria indistinta dei codici informatici. Uno snodarsi di impulsi privo di dimensione, privo di emozione, privo di spessore. La intelligenza umana ha la capacità, realmente generativa, di percepire automaticamente lo 'spostamento' possibile veicolato da un qualunque dato di realtà.

La IA procede unicamente per un processo analogico privo della dinamica del senso. Tutto ciò che viene preso in considerazione dalla AI viene reso in un testo privo di una vitalità 'in atto' e 'in potenza'. Il dato oggettivo viene analizzato e riscritto, sostanzialmente morto. La IA è priva della capacità di rimbalzo cognitivo autonomo. Per la IA i frammenti, che siano di opere letterarie, formule chimiche, opere visive, composizioni musicali, sono meramente ritmi binari che individuano intervalli di codice. Il codice a sua volta non è la lingua di trasmissione dell’esperienza, come per l’uomo, ma una sequenza di dati che interagiscono tra loro in modalità totalmente deprivate di un qualunque accesso al significato. Non è così mostruoso, è semplicemente l’unica possibilità che ha la macchina. Il resto, in definitiva la vita, è prerogativa dell’uomo, i cui funzionamenti che hanno una base di chimica e fisica sono in grado di fare un salto dimensionale precluso a ogni macchina. Che MosAIc possa riconoscere frammenti simili nelle opere, anche se appartenenti a diverse categorie, non rappresenta niente più di un altro esercizio di stile, nella migliore delle ipotesi. Un mosaico di frammenti riconoscibili e drenati definitivamente della loro componente gestuale. Il gesto è quella entità così difficile da individuare univocamente, di evolvere dalla stasi del dato pragmatico.

Stasi non intesa come assenza di movimento, ma come incapacità del salto dimensionale. Il gesto è la essenza della pittura, trama della scrittura che genera la forma e la significa molto oltre la similitudine dei moduli. MosAIc è un altro step verso la massificazione. Non che sia uno scandalo lavorare per ricerca di analogie. Il problema è la progressiva inversione delle gerarchie cognitive, per cui il significato, peculiarità vera delle arti e del fare umano, tende a diventare un corollario rispetto alla mera analisi della apparenza esteriore. Anche questa può essere di interesse, se contestualizzata, ma l’algoritmo la rende terreno privo di quello slancio a staccarsi dalla superficie, senza cui un Rembrandt risulterebbe equivalente a uno spazzolino da denti, solo meno utile. Oggi vi sono molte altre esperienze di ultilizzo della IA che dimostrano questa deriva, come il riconoscimento facciale e la previsione delle propensioni a delinquere ipotizzate attraverso un approccio lombrosiano reso in bit. Tutte mostrano quanto grave possa essere la deriva dello schiacciamento di ciò che realmente è la differenza dell’uomo, la sua storia , la sua sostanza.

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