mercoledì 12 febbraio 2020
Arriva in sala il toccante “La mia piccola Sama”, docufilm candidato all’Oscar, in cui la giornalista Waad al-Kateab racconta la vita nella città siriana assieme alla propria figlia e al marito
Una immagine de “La mia piccola Sama”

Una immagine de “La mia piccola Sama”

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Non ha apparenza né bellezza. Non conosce il tempo né la giustizia. Ha tre colori: nero, rosso e bianco: la morte, con la sua presenza, uniforma tutto. Le sfumature, invece, appartengono a tutto ciò che è vita: il rosa pallido dei vestiti, l’azzurro verde degli occhi, il lilla vivace dei fiori, il giallo acerbo del caco. Alla mia piccola Sama (candidato agli Oscar come miglior documentario e vincitore del Golden Globe e dell’Efa) è un film indimenticabile ed esce finalmente in sala da domani per Wanted Cinema. Siamo ad Aleppo e la regista Waad al- Kateab, costruendo un arco temporale più sentimentale che cronologico ( lo dirige insieme a Edward Watts), scrive la sua lettera d’amore alla figlia Sama, il cui nome vuol dire Cielo, un cielo con nuvole e sole, senza aerei e bombardamenti.

Waad è una giornalista, ha lasciato la sua città per studiare Economia all’università di Aleppo. Sono appena terminate le elezioni, i fuochi d’artificio tuonano nel cielo e c’è aria di possibile democrazia. Lo scrivono anche gli studenti sui muri, quelli che riempiono le piazze, cristiani e musulmani insieme, e abbattono i mosaici che celebrano la dittatura. Molti uomini e poche donne che indossano lo hijab. Waad non sa che la sua vita è destinata a cambiare. La sua e quella di tutti coloro che non appoggiano il regime. Tra i suoi amici c’è Hamza, un giovane medico che sceglie di rimanere ad Aleppo e di rinunciare al suo matrimonio. Perché, in realtà, è di Waad che è innamorato, di quella donna che filma tutto con la sua telecamera e restituisce al mondo una realtà, la stessa che le società democratiche dovrebbero provare a salvare. Waad e Hamza si amano da subito. Le prime rovine della città, le bombe che distruggono ogni muro, sono in contrasto con la musica del loro matrimonio, con i sorrisi impressi sui visi. C’è aria di speranza in quella stanza: le bombe hanno smesso momentaneamente di essere lanciate dall’esercito guidato da Bashar al-Assad, presidente della Siria. Solo per un tempo limitato perché i raid mortali feriscono e uccidono centinaia di civili ogni giorno e non hanno alcuna remore a colpire tutti i posti possibili, anche quelli strettamente confinanti con l’unico ospedale della città. Quando esplodono, l’energia elettrica e quindi l’areazione necessaria si blocca nell’ospedale e gli uomini, non solo gli infermieri e i medici, diventano le macchine al servizio dei feriti. Il regime ha iniziato con un eccidio di ribelli, torturati, uccisi con un proiettile in testa e abbandonati nel fiume. Le madri entrano nell’ospedale per piangere i propri figli, per raccogliere i loro corpi e averli con sé.

«In quale vita ti ho trascinato» si chiede Waad quando abbraccia Sama e osserva la realtà che ha davanti. «I bambini non c’entrano niente con tutto quello che sta accadendo» dice un infermiere a Waad. Eppure sono i bambini, i loro corpi esanimi e feriti brutalmente, che spiegano tutto l’orrore della guerra. O anche tutta la potenza della vita. C’è una sequenza inobliabile che Waad riesce a riprendere: una donna, ferita, è incinta al nono mese. È una corsa contro il tempo, la loro. I medici non hanno delicatezza, non serve. Estraggono dal grembo il neonato che non ha apparentemente battito. Il suo corpo è molle, non sembra appartenere a un essere vivente. Un medico si avvicina e tenta di far battere il suo cuore, lo scuote fino a quando un pianto proviene da quel corpo biancastro. È il grido di chi ha terminato la sua vita nel grembo e inizia quella vera. Anche la madre, poco dopo, sarà salva. Perché ci sono persone che fuggono da Aleppo e altre che provano a restare? Il coraggio di rimanere nella città, un tempo verdeggiante, che è ormai un insieme di rovine, sembra senza spiegazioni.

Cosa può portare una persona ad accettare la privazione della libertà, la morte sempre più vicina, il dolore che non si interrompe mai, la scarsità del cibo? Waad sceglie un bambino, figlio di amici di famiglia, per mostrarlo: lui è nato lì e non ha voglia di abbandonare la sua terra. Certo, i suoi amici sono andati via e li ha trasformati, per non dimenticare, in figurine ritagliate. Ma il bambino, nella sua infantile ostinazione, porta avanti quel coraggio che anima anche le vite di coloro la cui resistenza ad Aleppo è silenziosa e tenace. Per strada gli anziani giocano a scacchi augurandosi la fine di Bashar al-Assad e quindi della guerra, i ragazzi si buttano nelle pozze d’acqua immerse in bacini di fango, i bambini, guidati dai genitori, colorano i muri con la vernice sgargiante. Anche la piccola Sama dipinge con la mano sorretta dalla madre. Certo, tutto sembra poco, anche i fiori che resistono al freddo della neve quando la morte arriva e non ha pietà. Le lacrime scorrono lente in questo film. Il dolore provocato dalla violenza e il rimpianto per una terra amata e distrutta dall’odio non spengono mai la luce sui volti dei protagonisti. Continua a brillare mentre nel cuore, anche dello spettatore, si (con)fondono speranza e sofferenza.

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