domenica 16 maggio 2010
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Ottobre 1910. Un filosofo italiano di ventitré anni muore suicida a Gorizia. Dopo pochi mesi i suoi compagni di studio pubblicano a loro spese le sue opere. Nel corso dei decenni successivi il nome di questo ragazzo geniale a poco a poco diventa noto in Italia. Passa il secolo, passa il millennio e le opere di Carlo Michelstaedter (questo è il nome del filosofo) vengono tradotte nelle principali lingue europee e pubblicate in vari continenti. Così, quest’anno nel festival di Gorizia chiamato "È Storia" (ormai di grande notorietà) alcuni eventi saranno dedicati a lui. Carlo Michelstaedter entra nella Storia. Chi era, ormai molti italiani cominciano a saperlo. Nei licei, nelle università le sue idee, le sue opere, e la sua vicenda personale sono materia di studi, di tesi di laurea. Quattro giovani registi cinematografici, ciascuno per conto proprio, stanno pensando di fare un film su lui. Perché? Perché Carlo – mi permetto di chiamarlo così – riassume in sé tutti i problemi, tutte le enormi potenzialità di talento, creatività, immaginazione, onestà, capacità di lavoro, voglia di vivere dei giovani di questi ultimi cento anni. La sua tesi di laurea, diventata poi un libro noto con il titolo La persuasione e la rettorica, ormai è considerato uno dei capolavori della filosofia moderna. Partendo da temi che riguardano la filologia del greco antico  e la filosofia di Platone, quella tesi di laurea diventa un grido di accusa verso la società, verso la cultura di allora e di oggi, che ignora quello che i giovani invece disperatamente vogliono sapere: che senso si vuole dare alla loro esistenza, a che cosa si debbono aggrappare quando tutto, tutto è in vendita, il sapere, la salute, i sentimenti, le attese. La tesi di laurea di Carlo esige delle risposte e purtroppo quelle risposte da lì a pochi anni arrivano: la Prima orrenda, sanguinosa guerra mondiale, e dopo, il fascismo e dopo tutto il resto che conosciamo. Tra l’altro una parte della famiglia di Carlo, famiglia di ebrei, trentacinque anni dopo la sua morte viene sterminata ad Auschwitz: la madre novantenne, una sua sorella, due sue amiche innamorate di lui e vari parenti. L’accusa di Carlo Michelstaedter, cioè che la nostra civiltà da duemila anni si basi sulla retorica, sull’occultamento della realtà per mezzo delle parole, purtroppo va a segno. Basti pensare alla scritta che appare sopra il cancello del campo di sterminio di Auschwitz: «Il lavoro rende liberi».Ma che cosa sappiamo di questo giovane uomo, della sua vita, di ciò che l’ha portato al suicidio? Ne sappiamo abbastanza, grazie ai molti documenti che la famiglia ha conservato e che oggi sono rintracciabili in un fondo, a Gorizia. Quando Carlo era nato (1887) quella città apparteneva all’Impero austro-ungarico. Un intero quartiere era abitato da una vivace comunità ebraica. Carlo e la sua famiglia originaria dell’Europa centro-orientale facevano parte di questa comunità. Suo padre era dirigente delle assicurazioni Generali, che anche oggi hanno un’influenza rilevante sulla vita economica italiana. Era dunque una famiglia agiata. Abitavano nella piazza allora chiamata Piazza Grande. Quel ragazzo coltissimo, intelligente, prestante, era un eccellente ballerino, un nuotatore e corridore tenace, un vero sportivo. Dipingeva e disegnava con facilità e perizia. Per questo, finito il liceo, decise di andare a studiare in Italia, a Firenze; voleva diventare pittore, invece di studiare matematica nella capitale dell’Impero, a Vienna, come avrebbe voluto suo padre. La scena della sua esistenza dunque si sposta a Firenze, dove si iscrive all’Istituto di Studi superiori e studia filologia classica e dove si compie il suo destino. Si lega a una donna russa, divorziata, più grande di lui di qualche anno, anche lei a Firenze per studiare pittura, poi a una ragazza calabrese, figlia di un magistrato. Diventa amico di molti compagni di studi, si imbeve della grande cultura fiorentina, disegna e scrive. Per le feste torna sempre a Gorizia e anche lì vive la sua giovinezza in mezzo agli amici. Poi cominciano i lutti. Suo fratello muore, negli stati Uniti, cadendo da un’impalcatura (accidentalmente?). La donna russa, Nadja, si suicida. Il turbamento di Carlo lo porta a riflettere sempre più profondamente sui grandi temi dell’esistenza, quei temi che saranno il centro della filosofia europea del resto del secolo. Arriva il momento di preparare la tesi di laurea e lui sceglie il tema della persuasione e della retorica, partendo da Socrate e da Platone. Un  esame spietato della condizione umana e di quella dei giovani. Una terribile e illuminata scoperta di come dall’epoca di Platone in poi l’Europa avesse imparato a vivere di menzogne, feticci, false promesse. Lavora febbrilmente, giorno e notte, chiuso nella soffitta di casa. Termina la sua tesi, che oggi rappresenta uno dei contributi più originali alla filosofia del Novecento. La spedisce a Firenze e il giorno dopo, in seguito a una lite con la madre, si uccide con un colpo di rivoltella. Da allora sono passati cento anni. I suoi migliori amici, suoi adoratori, per decenni hanno continuato a stampare e ristampare le sue opere. Molti studiosi e narratori hanno scritto di lui. Per esempio Sergio Campailla (A ferri corti con la vita), Roberta De Monticelli (Lettere a Carlo Michelstaedter) Paolo Magris e Marcello Crea (Come se fosse l’ultimo), e soprattutto Claudio Magris, in numerosi articoli e nel romanzo breve, tradotto in molte lingue, Un altro mare. Oggi a Carlo Michelstaedter viene riconosciuto un ruolo rilevante nella storia della cultura europea.
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