martedì 12 luglio 2022
«Fra centri e periferie si gioca una svolta che dipenderà anche dal nostro modo di lavorare e di consumare. Una sfida per il nostro futuro», dice lo scrittore spagnolo
Sergio del Molino

Sergio del Molino - Magdalena Siedlecki

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La Spagna – al pari dell’Italia – ha vissuto in questi ultimi anni l’abbandono delle campagne e delle province, insieme a un rapido processo di inurbamento. A partire da questa riflessione sui territori e su chi li abita, un’altra riflessione collegata riguarda le politiche dei territori. A parlarne è lo scrittore e giornalista Sergio Del Molino, in Italia pubblicato da Sellerio, che in occasione di Geografie sul Pasubiosabato sarà in Italia per parlare del suo libro, La Spagna vuota. Del Molino a ottobre uscirà, sempre con Sellerio, con il nuovo libro, Pelle, trattato letterario e autobiografico sul tessuto biologico che ricopre il nostro corpo. Del Molino ha un punto di vista, se si vuole, paradossale: lo spopolamento è spesso associato al declino economico, e «l’Europa – dice – sarà presto un continente spopolato, ma non povero. Per la prima volta nella storia, assisteremo a uno spopolamento che non sarà un problema economico». La Spagna, ma anche l’Italia, ha visto svuotarsi parti del suo territorio negli ultimi decenni. Tutto è iniziato nel dopoguerra con l’abbandono delle campagne e il rapido processo di urbanizzazione.

Pensa che oggi questo processo si stia invertendo?

Gli ultimi dati sulla popolazione confermano che le grandi città, soprattutto Madrid, continuano a crescere, mentre le spopolate province dell’interno continuano a svuotarsi. Non è cambiato nulla di sostanziale, se non l’emergere di un pensiero velleitario in cui molte persone esprimono il desiderio di trasferirsi in campagna, ma quasi nessuno lo fa.

La questione delle periferie è un tema su cui si fa molta demagogia. Ritiene che oggi il tradizionale sistema centro-periferia stia cambiando?

Questa immagine delle periferie era certamente vera in Spagna fino agli anni 80. Oggi la periferia di Madrid concentra la popolazione con redditi più alti e tendenze di voto più conservatrici. La dialettica centro-periferia è cambiata molto. Il geografo francese Christophe Guilluy ha analizzato il comportamento elettorale della Francia utilizzando il concetto di periferia, al plurale. Le società sono composte da molti centri e molte periferie, queste ultime non sono solo territori, ma gruppi di popolazione che possono vivere nel centro, ma non partecipano ad esso. Le periferie sono escluse dalla vita della nazione, non decidono nulla e subiscono soltanto.

La riqualificazione urbana va riconsiderata perché non è solo la città a cambiare, ma anche chi la abita; questo vale anche per i territori in piena urbanizzazione?

Sarebbe auspicabile, ma per questo dovremmo cambiare il concetto stesso di città dormitorio e riprogettare le città da cima a fondo. Ci sono esperienze e idee interessanti. Alcuni urbanisti radicali propongono una città rurale, un’estensione urbana che includa elementi della vita contadina, come campi e fattorie, rifornendo i mercati urbani con cibo prodotto sul posto. Senza spingersi fino a queste idee utopiche, il progetto di Parigi di trasformare le autostrade periferiche in strade è un passo importante per ripensare la città e rompere la routine del pendolarismo di massa. Ma tutto questo non servirà a nulla se non cambiamo il modo di lavorare e di consumare.

Pensa che la direzione sempre più chiara verso lo sharing e la partecipazione dei cittadini al processo di costruzione delle esigenze del territorio in cui vivono cambierà ancora?

Penso che le grandi crisi, come la guerra in Ucraina e l’approvvigionamento energetico, possano interrompere questa tendenza, finora evidente, e riportare l’Occidente a un’idea di progresso e sviluppo molto più da XXII secolo che da XXI secolo. Finché non sapremo cosa accadrà alle sfide geopolitiche ed economiche che dobbiamo affrontare, sarebbe ingenuo continuare a fare affidamento sull’economia circolare.

È possibile che l’attaccamento delle popolazioni ai luoghi sia tanto maggiore quanto più a lungo le persone rimangono stabili in un territorio?

L’attaccamento di una persona a un luogo è altamente simbolico e il simbolico trascende le circostanze concrete del territorio. Gli esuli, ad esempio, vivono legati a un Paese scomparso: non smettono mai di sentirsi stranieri e sopravvivono in una nostalgia che crea un Paese immaginario che esiste solo per loro. L’importante non è che una popolazione rimanga stabile in un luogo per lungo tempo, ma che i movimenti della popolazione non siano traumatici. Se sono un professionista spagnolo che va a lavorare in Italia per scelta, perché conosco l’italiano e in Italia ho trovato migliori possibilità per la mia carriera, non sentirò la nostalgia di casa. Ma se sono un abitante del Senegal che attraversa il Sahara a piedi e il Mediterraneo su una barca clandestina per pulire i cassonetti di una stazione ferroviaria e mandare qualche euro alla mia famiglia perché non muoia di fame, l’allontanamento sarà insopportabile.

I luoghi dimenticati potrebbero essere il seme della disuguaglianza che finisce per erodere la democrazia?

È questo che mi preoccupa di più. Il senso di estraneità e disprezzo provato da molte comunità e gruppi è un terreno fertile per la crescita di movimenti populisti e autoritari che possono far crollare le istituzioni della democrazia liberale. Non credo che oggi ci sia una sfida più grande.

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