martedì 17 febbraio 2015
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​La casa è uno spazio di oggetti, di conchiglie come di elettrodomestici, di vasi di coccio come di ricchi soprammobili: l’Homo habilis ha bisogno di ricordarsi continuamente che le cose che ha fatto, come quelle che utilizza, sono una parte di sé. Ma entrare in relazione con esse non significa necessariamente adottare l’habitus del tecnico specialista. La tecnica, da quella esercitata dall’elettricista che ci ripara il ferro da stiro a quella dei processi innovativi sviluppati dagli scienziati di un laboratorio industriale, non è solo materia per gli studenti di un istituto tecnico o per futuri ingegneri, ma una componente sempre più essenziale dalla specie Homo sapiens.Se da un lato filosofi e architetti da sempre si sono dedicati all’idea della casa, in pochi hanno rivolto la propria attenzione ai suoi contenuti. Certo, nell’Odissea la casa è al centro di alcune vicende durante le lunghe peregrinazioni dell’eroe. Certo, la casa di Ulisse a Itaca è persino dotata di un bagno (canto XIX), di una porta a chiavistello (canto XXI), di un focolare e soprattutto di un letto speciale (canto XXIII). Eppure, nonostante alcuni illustri esempi, sembra che le descrizioni degli ambienti interni e delle cose che li arredano e che ne completano tecnologicamente le funzioni abbiano interessato poco e pochi. Nel De architectura di Vitruvio le considerazioni sulla casa privata si limitano essenzialmente alle tecnologie edilizie e, se probabilmente l’unica tecnologia domestica di rilievo continua per lungo tempo ad essere la pompa a stantuffi ideata da Ctesibio, ingegnere greco vissuto nel III secolo a.C., bisogna aspettare il Rinascimento per ritrovare le fontane a sorpresa ma soprattutto alcuni utili congegni per muovere i girarrosti o per azionare i ventilatori. Non nell’Utopia di Tommaso Moro, infine, dove si descrive la città ideale, ma nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone, anno 1724, opera in cui si celebra l’utopia tecnologica, spicca la Casa di Salomone, dove il futuro è già cominciato: «Disponiamo anche di alcune stanze che chiamiamo camere di salute dove condizioniamo l’aria per renderla salubre e adatta alla cura di varie malattie e alla conservazione della salute. Riusciamo a colorare la luce e a compiere ogni sorta di inganni e illusioni ottiche [...]. Abbiamo costruito anche “case dei suoni” dove facciamo esperimenti su tutti i suoni e sulla loro generazione [...]».Nell’Architettura famigliare di Alessandro Capra, architetto e cittadino cremonese, pubblicata in prima edizione nel 1678 e ristampata più volte anche dopo la sua morte, insieme alle consuete tematiche dei manuali di architettura fanno la loro timida presenza «una gramola famigliare», per lavorare «la pasta per fare il pane alla sua famiglia di 10 e 14 persone», e alcuni dispositivi idraulici e meccanici per rinfrescare le stanze. E poi pompe, mulini, macine. Saranno però la Rivoluzione industriale e soprattutto l’onda lunga dei suoi effetti nella creazione della società dei consumi a far sorgere alla metà dell’Ottocento un’attenzione privilegiata alle cose di casa. La Grande esposizione universale di Londra del 1851 celebrerà nel trionfo del Crystal Palace l’esercito dei gadget, spesso inutili, di cui sarà necessario far bella mostra nelle case vittoriane. La sindrome espositiva si propaga da Parigi (1855), ancora a Londra (1862), a Vienna (1873), a Filadelfia (1876), a Parigi (1889), a Chicago (1893), solo per ricordarne alcune e senza dimenticare quelle italiane di Roma (1874), Milano (1881) e Torino (1884), per arrivare al 1911 con le celebrazioni del cinquantenario dell’Unità d’Italia. E proprio durante i primi anni del XX secolo nasce la disciplina dell’ornamentazione industriale, antesignana del moderno design, come pure quella dell’ingegneria sanitaria, che combatte la nuova battaglia per avere case pulite, dotate di acqua corrente e di servizi igienici.
Con l’elettricità – la fèe électrique, la fata elettricità, come la chiamano i parigini – la ville diventa lumière e la tecnologia cambia il modo di vivere anche in casa. Già nelle opere di Jules Verne, a fine Ottocento, la tecnologia entra in maniera prorompente nel quotidiano domestico: ne I cinquecento milioni della Bégum, in netto antagonismo con le abitazioni dell’opprimente Stahlstadt, le case di France-Ville assumono le caratteristiche di un modello ideale di confort ed efficienza: «Era stabilito un insieme di regole fisse a cui gli architetti avrebbero dovuto attenersi: [...] i condotti dell’acqua e quelli degli scarichi saranno disposti a vista lungo le colonne centrali, onde poterne verificare sempre lo stato e in caso d’incendio per permettere l’immediato uso dell’acqua [...]. Si provvederà a disporre una serie di aperture per far circolare l’aria e per rimuovere gli odori sgradevoli [...]. Un ascensore, mosso da forza meccanica, e fornito con l’energia elettrica e l’acqua a particolari condizioni economiche, permetterà di effettuare l’accesso ai piani superiori anche con i grossi carichi [...]. Ciascun appartamento avrà un impianto di riscaldamento secondo i gusti a legna o a carbone: ciascun focolare sarà collegato a una presa d’aria esterna [...]».Questa breve panoramica, che spazia dagli antichi ai moderni, dai letterati agli architetti, è un piccolo ma significativo richiamo al fatto che le macchine sono parte di noi e hanno contribuito a renderci quello che siamo, e che se di colpo scomparissero tutte, probabilmente l’umanità come la conosciamo si estinguerebbe in poco tempo. Sono infatti diventate qualcosa inscindibile da noi, soprattutto all’interno della nostra casa, nella vita domestica.
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