martedì 7 luglio 2009
«C’è la “sindrome Guardiola”, ma tra i nuovi tecnici non vedo fenomeni I presidenti non guardano più il curriculum, così io, Mazzarri e Delio Rossi siamo fuori dal giro»
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L’ uomo del fiume, Serse Cosmi, sta seduto sulla sponda in at­tesa di chiamata per una nuo­va panchina. Gli brucia ancora forte l’esonero dell’anno scorso al Brescia, dopo appena 5 giornate. «La stagione precedente, da subentrato, avevo otte­nuto la stessa media punti con la qua­le quest’anno il Bari è salito in serie A...». Il 51enne Serse da Pon­te San Giovanni (Pe­rugia), fino a un atti­mo fa era considera­to il miglior allenato­re emergente e ades­so invece si ritrova al palo. Il tutto dopo a­ver costruito il Peru­gia dei miracoli di Lu­ciano Gaucci, ripor­tato in serie A il Ge­noa (poi retrocesso in C per la “valigetta” di Preziosi) e condotto l’Udinese a un passo dal traguardo-record del superamen­to della fase a gironi della Champions.La storia dicono sia maestra di vita, ma forse nel calcio nessuna la studia più? «Come dice Walter Mazzarri, rimasto a piedi pure lui, “non si guarda più al cur­riculum”. Se questo fosse il requisito principale, gente come lui, Delio Ros­si o il sottoscritto, i presidenti non li la­scerebbero mica a spasso. Sempre che la scelta dell’allenatore la facciano an­cora i presidenti...». Perché chi è che assume il tecnico a­desso? «Si è creata una grande confusione. U­na volta presidente, direttore sportivo e tecnico, erano un’entità unica. Ades­so invece il ds è diventato un elemen­to al servizio esclusivo del presidente e quando le cose vanno male, per il ter­rore di perdere il posto, si schiera dal­la parte del più forte. Ed è naturale che il terzo anello, il più debole, cioè l’alle­natore, salti come un birillo». Siamo alle solite: l’al­lenatore unico vero capro espiatorio. «La responsabilizza­zione è aumentata. In serie A l’allenatore svolge sempre di più il ruolo del “gestore di situazioni” che spes­so vanno molto al di là dell’aspetto tecni­co. Faccio un esem­pio: all’Udinese nella partita più importan­te della sua storia, la sfida di Champions contro il Barcellona, dovetti lasciare fuori Iaquinta perché non rinnovava il con­tratto con la società...». Il suo collega Galeone teorizza: “Un al­lenatore in serie A incide per il 20% nell’economia della squadra”... «E ha ragione. Per vedere il lavoro ve­ro sul campo e una circolazione inte­ressante di idee bisogna andare a se­guire gli allenamenti all’estero o da noi scendere a dare un’occhiata alla serie C. È quello che farò da qui a quando non mi richiameranno». Ricomincerebbe anche dall’estero? «Perchè no? Noi italiani commettiamo ancora l’errore di sentirci i depositari assoluti del calcio, mentre magari in questo momento c’è più da imparare dal campionato greco o da quello tur­co che dal nostro. Di sicuro non rico­mincerò mai più dalla serie B, quello è uno degli errori di valutazione che ho commesso. Devo ancora correggerne altri di mentalità...». Qual è il suo “limite mentale”? «Carletto Mazzone un giorno mi disse: “Serse, il guaio tuo è che sei troppo a­ziendalista”. È vero, ho sempre messo al primo posto la società e poi le mie e­sigenze. In ogni club in cui ho lavora­to non ho fatto spendere un centesi­mo di più del budget a disposizione. Forse è arrivato il tempo di pensare un po’ a me stesso». È la sua ricetta contro la disoccupa­zione? «Il termine “disoccupato” per chi co­me noi allenatori ha la fortuna di per­cepire certi ingaggi può sembrare of­fensivo, specie in tempi in cui la gente non arriva a fine mese. Io mi definisco più un arrabbiato che ha tanta voglia di tornare in campo per dimostrare tut­to il suo valore. Penso che questo sia il sentimento comune di ogni tecnico che è fermo». È fermo anche Roberto Mancini, l’al­lenatore che ha vinto di più negli ulti­mi anni. «Per Mancini è solo una questione di peso contrattuale, i 6 milioni di Moratti in giro non glie li danno mica tanto fa­cilmente ». La Juve ha scelto Ciro Ferrara e il Mi­lan Leonardo, la “sindrome Guardio­la” sta dilagando? «Sicuramente, però faccio notare che Guardiola al debutto ha vinto la Liga e ha strappato una Champions a un si­gnore di 67 anni che si chiama Alex Fer­guson... ». Vuol dire che da noi è ancora meglio puntare su tecnici rodati piuttosto che su giovani allo sbaraglio? «Io faccio solo una considerazione: die­ci allenatori di serie A che la passata stagione sono partiti alla prima gior­nata, quest’anno non lavorano. Allora, o questi sono improvvisamente “rim­becilliti”, oppure quelli nuovi sono tut­ti dei fenomeni...». Non crede a questa seconda ipotesi? «Per niente. Quando nel 2000 mi chiamò il Perugia, ero il terzo allenatore nella storia del calcio italiano che ave­va fatto il doppio salto dalla serie C al­la A. Ora mi pare che a due-tre tecnici ogni anno viene data questa opportu­nità. E appena fanno benino si grida al miracolo». Giudizi eccessivamente positivi? «Naturale. La serie A all’epoca era a 18 squadre e non a 20, con 4 retrocessio­ni invece di 3. In più esistevano anco­ra le “7 sorelle” e il mio Perugia ha da­to spettacolo ed è arrivato in Uefa sco­mettendo su sei giocatori, tutti titola­ri, che arrivavano dalla C e un dilet­tante, Pieri... Non vedo allenatori gui­dare squadre del genere attualmente». Sta rivalutando anche i meriti di Lu­ciano Gaucci, uno degli “ostracizzati” di Calciopoli?«Ho sempre pensato che Luciano Gaucci fosse un genio, uno dei rari pre­sidenti competenti di calcio, era avan­ti dieci anni rispetto agli altri. E suo fi­glio Alessandro è il più grande scopri­tore di talenti in circolazione». C’è un Cosmi in circolazione e non in attesa di panchina? «Sì, Mourinho. Come Cosmi dice sem­pre quello che pensa e non ha paura di metterci la faccia... Ma questo forse og­gi non paga più».
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